mercoledì 27 luglio 2011

D’Andria: “L’Italia inverta la rotta dell’interventismo in Libia e si faccia promotrice di accordi tesi alla pacificazione”

Sulle recenti evoluzioni della crisi libica e le gravi conseguenze per l'Italia interviene in questa intervista il presidente della Fondazione Gaetano Salvemini Renato d'Andria. Che qui indica la strada maestra per l'uscita del nostro Paese da una politica di aggressione "suicida".

«Con l’Eni è finita per davvero. Abbiamo chiuso ogni cooperazione». Ha gelato l’Italia l’annuncio dato nei giorni scorsi alla stampa dal primo ministro libico Al Baghdadi Ali Al Mahmoudi. La decisione è stata presa dal rais Muammar Gheddafi, che accusa apertamente il governo italiano di aver violato l’accordo di non aggressione siglato tre anni fa con la Libia, partecipando ai raid della Nato contro il regime del colonnello. «Noi non avremo più un partenariato con l’Eni e l’Italia non otterrà, per il futuro, nessuna partecipazione nei contratti petroliferi in Libia», ha aggiunto il premier libico, che ha inteso porre l’accento sui 30 miliardi di dollari – a tanto ammontano investimenti dell’Eni nel settore petrolifero in territorio libico – che sarebbero da qui in poi irrimediabilmente compromessi. Uno scenario che già ai tempi delle prime incursioni aeree della Nato su Bengasi era stato prefigurato dal presidente della Fondazione Gaetano Salvemini, Renato d’Andria.

Presidente d’Andria, lei ha sostenuto fin dall’inizio che l’Italia doveva assumere una posizione non interventista. Ma sarebbe stato realisticamente possibile, con le sollevazioni popolari che infiammavano tutta la Libia e le richieste di libertà in arrivo dai “ribelli”?

E' ormai chiaro che le rivolte popolari molto spesso vengono suscitate da reparti mercenari infiltrati su iniziativa di gruppi – o, come in questo caso, potenze straniere – che hanno tutto l’interesse a destabilizzare gli assetti governativi locali. Questo è esattamente ciò che è avvenuto in Libia, ma non solo, anche in Siria e in altri Stati “caldi” del bacino del Mediterraneo.

Il nostro governo ha motivato l’intervento in Libia anche con la posizione geografica del nostro Paese, al centro del Mediterraneo, ma alleato della Nato.

La posizione geografica dell’Italia non è quella di una piattaforma missilistica o aerea al servizio della Nato, ma deve piuttosto suggerire un ruolo centrale, di cardine dei processi di pace e degli scambi socio-economici non solo con la Libia, ma all’interno di tutta l'area.

Però con la partecipazione all’intervento armato in Libia è accaduto esattamente il contrario.

Sì e questo lo si deve a scelte di politica decisamente poco lungimiranti e in ogni caso del tutto subalterne. In sostanza, la nostra partecipazione ha avuto, come da mesi ho scritto e dichiarato, un effetto doppiamente negativo per il nostro Paese: da un lato, abbiamo infranto trattati di amicizia e cooperazione che avevamo costruito attraverso alleanze tradizionali con la Libia; dall’altro abbiamo addirittura favorito un processo di “ricambio”, nel senso che alle imprese italiane potrebbero subentrare nei contratti e nelle partnership quelle francesi o britanniche, vale a dire afferenti a quei Paesi che avevano tutto l’interesse a scalzare le alleanze fra Roma e Tripoli.

Infatti, lo stesso premier Al Baghdadi Ali Al Mahmoudi ha annunciato nei loro confronti una politica meno drastica di quella che si prefigura ora con l’Italia.

Questo scenario era ampiamente prevedibile. Una politica suicida, per giunta in un periodo che è già di pesante recessione.

C’è qualcosa che, a suo giudizio, il nostro Paese potrebbe fare ora, alla luce di quanto sta accadendo?

Certo, l’Italia deve farsi promotrice di un tavolo internazionale di concertazione che spinga per il ritiro della Nato dalla Libia. Al tempo stesso, però, bisogna trattare con il leader libico per ottenere che, in cambio dei nuovi trattati, apra ad una vera riforma del Paese in senso costituzionale, secondo regole attentamente monitorate da organismi indipendenti di vigilanza.

Gheddafi, insomma, dovrebbe promulgare una nuova Costituzione?

Sì, ed aprire a libere elezioni con una autentica partecipazione dei cittadini, per costituire un Parlamento realmente democratico. Sarebbe l’unica salvezza: anche per il regime del rais, ma soprattutto per le sorti delle popolazioni e per il loro futuro. Non ultimo, questa soluzione consentirebbe all’Italia di riassumere e svolgere il suo ruolo centrale, e non al servizio delle potenze straniere e dei loro interessi.

Furio Lo Bello

(Renato d'Andria)

Sito dal quale è stato preso l'articolo: www.fondazionegaetanosalvemini.org

Ultimo aggiornamento Martedì 26 Luglio 2011 11:11

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