mercoledì 2 novembre 2011

DOPPIO RIFLESSO - IL NUOVO LIBRO DI MICHELE AINIS Anteprima

DOPPIO RIFLESSO - IL NUOVO LIBRO DI MICHELE AINIS Anteprima

Longanesi annuncia l'uscita, nel 2012, del nuovo libro del costituzionalista Michele Ainis. "Doppio Riflesso", questo il titolo, ruota intorno alla personalità di un "io narrante" alle prese con un mondo confuso e in cerca di nuova identità. E' l'uomo di oggi, certo. Ma chi è davvero il protagonista?
Seguiamo le note di presentazione. E' «un agente di commercio che rischia di perdere il lavoro, o il misterioso Arturo, un suo sosia che lo mette in cattiva luce con i vicini e con le donne, rovinandogli tutti i rapporti e facendogli terra bruciata attorno?»
«E chi è l'uomo che lo aspetta sotto casa offrendogli una copia rarissima del Necronomicon, il libro immaginario raccontato da Lovecraft, il sogno di ogni bibliofilo, l'opera dotata di poteri misteriosi, capace di evocare spiriti arcani e provocare allucinazioni? E che cosa c'entra il Necronomicon con il diario sul quale il protagonista cerca di fissare la sua angosciante ricerca di spiegazioni per dare un senso alla sua vita e ritrovare la sua identità? E Gea, la misteriosa bibliotecaria incontrata sulla spiaggia, che ruolo ha in questa vicenda?».

Dopo il grande successo de "L'Assedio. La Costituzione e i suoi nemici", uscito a gennaio 2011, Ainis tornerà in libreria questa volta in vesti di narratore. Un anuncio che sta già generando, nel vastyo pubblico che lo segue, fra l'altro, attraverso gli editoriali sul Corriere della Sera, attesa ed emozione.

L'AUTORE

Michele Ainis è ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nell’università di Teramo, in cui è stato prorettore vicario (nel 2001) e preside della facoltà di Giurisprudenza (dal 2001 al 2005). Ha pubblicato numerosi saggi (da ultimo Vita e morte di una Costituzione, Laterza 2006), è membro del comitato di direzione di varie riviste giuridiche, ed ha tenuto conferenze in Italia e all’estero. Dal 1998 è editorialista della Stampa di Torino, dopo aver collaborato al Corriere della sera. Nel 2003 è stato eletto nel direttivo dell’Associazione italiana dei costituzionalisti. Coordina la Scuola di scienza e tecnica della legislazione “Mario D’Antonio” costituita presso l’Isle. Ha fatto parte di varie commissioni ministeriali di progettazione e di studio

Le note biografiche sono tratte da Ethica Forum
(http://www.ethicaforum.it/michele-ainis.html).

ETHICA è un'organizzazione non a fini di lucro fondata nel 1991 e con base ad Asti, Italia.

(articolo preso da www.labarbarie.it di Renato d'Andria)

Si scrive Montezemolo, si legge Pomicino

Si scrive Montezemolo, si legge Pomicino


La domanda è: «comprereste un’auto usata da quest’uomo (foss’anche una Ferrari)?
Gli dareste in mano il volante del Paese?». Il primo atto politico dell’ “Italia dei carini”
- direbbe Crozza dell’Italia Futura di Luca Cordero di Montezemolo - non è un gesto
estetico, o il frutto di un think tank o di un advocacy group. No. Nasce come intrigo di
palazzo dalla più flaccida fisiognomica democristiana. Paolo Cirino Pomicino. Accade
che la notte prima del voto di fiducia berlusconiano, la forma astrale di Luca Cordero di Montezemolo s’impossessi del corpo di Cirino Pomicino; il quale, levatosi di soprassalto,
in trance andreottiana comincia a telefonare come un pazzo a tutti i parlamentari incerti
chiedendo loro di non votare la fiducia perché Montezuma li avrebbe «accolti a braccia
aperte». La notte, per Luca, è un’affezionata location. Conferma il sottosegretario Aurelio
Misiti: «Questa notte Montezemolo ha contattato Giustina Destro e Fabio Gava, convincendoli a voltare le spalle al Cavaliere. Ha preso contatti con altri. Di sicuro con Catia Polidori...» (e il Berlusca sbuffa: «Montezemolo voleva convincere Polidori a
mollarci. Sono stata costretto a nominarla viceministro»).
L’Italia Futura si accinge naturalmente a smentire i «fantasiosi retroscena che
attribuiscono a questa Associazione e al suo Presidente, manovre per convincere
deputati della maggioranza a votare contro il Governo». Ma un fatto è certo. Dopo tanto
traccheggiare, Duca Corbezzoli di Montescemolo - direbbe Dagospia - ha mosso il primo
passo in politica. Purtroppo, il passo sbagliato. Berlusconi l’ha sfangata ancora,
dimostrando forse d’essere il più democristiano di tutti; ma il punto è un altro.
Proprio mentre nella sua Ferrari scoppiano casini ciclopici con operai che s’inchiodano ai
pit stop, Montezuma invece di mostrarsi auriga del nuovo, adotta ineffabili strategie da
vecchissima repubblica. Non esce mai allo scoperto e manda in avanguardia i suoi
Talleyrand; blandisce i peones come i «due partecipanti alle cene di Scajola» (rivelò
Fabrizio d’Esposito sul Fatto); applica indifferentemente con Beppe Fioroni e Santo
Versace, Andrea Romano e Irene Tinagli la medesima fascinazione che ha usato in tutta
la vita per ottenere sempre il massimo risultato col minimo sforzo. Eppure non v’è nulla, in circolazione, di più vecchio, di più visceralmente osmotico alla prima Repubblica di Montezuma.
E non lo dicono solo insospettabili come De Magistris o Paolo Ferrero. Per Luca parla la
storia personale che trascende sorriso vaporoso e ciuffo ribelle: i tentativi di raccomandazioni in Rai intercettati con Bisignani; la cacciata dalla Fiat da parte di Romiti perché si «vendeva gli incontri con Agnelli»; i conflitti d’interessi presenti e futuri anche a causa della sua società ferroviaria Ntv, che nel caso di premierato, «inciderebbe sul futuro dei trasporti su rotaia», teorizza Stefano Feltri nella biografia “Il Candidato - tutti
conoscono Montezemolo, nessuno sa chi è davvero”. Un titolo, peraltro, fuorviante: sono
in molti a sapere chi è davvero Monty. Basta solo ricordarglielo ogni tanto...

Francesco Specchia
articolo tratto da Libero del 16/10/2011

(articolo preso da www.labarbarie.it )

Oltre l’Italia degli “sfascisti” (e dei media al loro seguito).

<b>Oltre l’Italia degli “sfascisti” (e dei media al loro seguito).</b>

Va condiviso in pieno quanto ha scritto il direttore del Tempo, Mario Sechi, nelle ore degli scontri che hanno messo a ferro e fuoco la capitale, lo scorso 15 ottobre. «Quello che sta succedendo – scrive Sechi - è figlio di una cultura sbagliata che affonda le radici nel crollo dell’alta educazione, di un piagnisteo mediatico che giustifica la violenza e in molti casi la incoraggia, di un’ignoranza che gronda dagli stereotipi dei commenti televisivi, tracima dal senso di colpa di un establishment senza pudore che riesce a dar ragione insieme alla Bce e agli Indignados, un caso clinico di schizofrenia che affligge una parte della classe politica, quella che ha appaltato il pensiero alla tecnocrazia, mentre gli amici banchieri si riempivano la pancia di spazzatura finanziaria».

Aggiungo che a soffiare sul vento delle tensioni è stata, nel corso degli ultimi mesi di crisi economica e sociale, proprio quella certa parte della classe politica di sinistra che oggi si straccia le vesti per denunciare ogni forma di violenza (spingendosi perfino ad evocare la Legge Reale, come ha fatto Di Pietro), ma fino a ieri aizzava il malcontento delle folle in piazza con il fine ultimo del proprio tornaconto elettorale, da conquistare spingendo sul chiodo fisso della “fine del berlusconismo” ad ogni costo.

Il risultato del perdurante atteggiamento “sfascista” di questa parte della classe politica non è solo la Roma che abbiamo sotto gli occhi, ridotta come all’indomani di una guerra civile, ma soprattutto il depauperamento ulteriore del Paese e della sua affidabilità sullo scenario internazionale. Il che, tradotto in termini economici, significa risorse ancor più ridotte, sia per offrire concrete risposte alle richieste dei cittadini, sia per avviare una possibile ripresa. (
Renato d’Andria )


Di contro, mentre i demolitori di sinistra portano a compimenti i loro piani, esiste sull’estero un’immagine del Paese che, nonostante tutto, “tiene”.
Il riferimento, che risale ad appena qualche giorno fa, è ad un incontro pubblico tenutosi a Londra presso il ministero dell’Industria, nel corso del quale esponenti del governo Cameron hanno discusso, fra l’altro, della situazione italiana, messa recentemente sotto i riflettori anche dalla Bce. «L’Italia – è stato affermato da esponenti dell’esecutivo britannico – è un Paese dipinto a tinte fosche da buona parte della sua stessa stampa, ma se guardiamo i numeri, ci accorgiamo che la drammatica situazione riportata sui giornali non sempre corrisponde a dati reali. Per fare un solo esempio – è stato sottolineato – il tasso di disoccupazione è inferiore rispetto al nostro ed anche in materia di pensioni il sistema italiano può dare ancora oggi dei punti a quello inglese».
La conclusione non ha potuto che trovare d’accordo la delegazione d’imprenditori italiani a Londra della quale ho fatto parte nei giorni scorsi: «i problemi veri che affliggono l’Italia – ha chiarito il sottosegretario all’industria del governo di David Cameron – sorgono da conflitti politici interni, dallo scontro permanente fra blocchi contrapposti di potere che sfocia poi immancabilmente in rappresentazioni sulla stampa italiana tali da offendere e mortificare un grande Paese, da sempre nostro alleato, come l’Italia».


Renato d’Andria
Segretario nazionale PSDI

martedì 18 ottobre 2011

ITALIA – La via d’uscita possibile dalla morsa della crisi

Parla Renato d’Andria, presidente della Fondazione Gaetano Salvemini di Roma.
D’Andria: «è arrivato il momento che i falsi moralisti si facciano da parte e lascino lavorare il Paese».
Le campagne mediatico-giudiziarie a base di scandali privati che rimbalzano dalla stampa italiana a quella internazionale stanno alimentando le manovre speculative in atto sulla pelle degli italiani, col rischio concreto d’infliggere il colpo di grazia alle residue speranze del Paese di risalire la china e ricominciare a costruire il suo futuro.
Ma fino a che punto si tratta di eventi imprevedibili, atti giudiziari ineccepibili e relativi dati di cronaca doverosamente riportati all’opinione pubblica?
Ed esistono strade percorribili per uscire dal pantano e rilanciare le sorti economiche del Paese?
Di questo ed altro parliamo con Renato d’Andria all’indomani del convegno organizzato dalla Fondazione Gaetano Salvemini lo scorso 21 settembre alla Sala Capranichetta di Piazza Montecitorio. Un incontro che ha visto l’attenta partecipazione di un folto pubblico e un parterre de roi comprendente, fra gli altri, personalità del mondo accademico come Michele Ainis, giornalisti di grido come Oliviero Beha, Filippo Facci e Mario Sechi, politici come Rocco Buttiglione ed Elio Lannutti, per citare solo i principali esponenti dello star system italiano.
Presidente d’Andria, il convegno ha preso le mosse da una sua considerazione ben precisa: nel Paese è in atto una guerra civile, di fronte alla quale è necessario assumere tempestivamente rimedi, prima che sia troppo tardi.
Quali sono, a suo giudizio, le forze contrapposte in campo?
Il Paese è dilaniato da una guerra combattuta non con le armi tradizionali, ma con quelle ben più sofisticate della comunicazione, i cui effetti sull’economia di una nazione possono essere devastanti. Dietro le quinte operano lobby comprendenti anche personaggi stranieri, portando avanti disegni a danno degli italiani. Una situazione che rischia di condurci alla rovina.
In che modo tali manovre vengono attuate?
Coloro che sanno leggere dietro le righe comprendono perfettamente che molto spesso ad influenzare i media europei ed internazionali sono gruppi di giornalisti italiani, o residenti comunque in Italia, che sono ben addestrati al gioco di sponda per creare un’immagine aberrante del nostro Paese, qui da noi ed anche sull’estero. Attraverso la cattiva immagine si crea la sensazione di un Paese a guida debole e inaffidabile. Il che fa scendere le “quotazioni” dell’Italia sui mercati e favorisce gli speculatori.
Gruppi di giornalisti, insomma, al servizio delle lobby speculative?
Questo è solo uno dei principali fattori che alimentano la crisi italiana. Si tratta di personaggi che, se fossimo in una guerra combattuta con le armi, dovremmo definire come “asserviti al nemico”. E in tal caso dovrebbero anche assumersi le responsabilità del loro operato, dei danni economici e sociali che stanno producendo alle imprese e alle famiglie italiane.

Qualcuno obietta però che gli “scandali” sono reali, la magistratura li persegue e i giornali ne scrivono. Non è così?
I vizi privati sono una costante del potere, questa è storia. Se andassimo a guardare sotto le lenzuola di tutti coloro che ci hanno governato, e di molti che ancora sono al potere, troveremmo ben altro, rispetto ai presunti “scandali” che riempiono oggi le prime pagine dei giornali. Vere e proprie Sodoma e Gomorra. Perciò, è arrivato il momento che i falsi moralisti si facciano da parte e lascino lavorare il Paese.
E’ a questo che si riferiva quando, in apertura dei lavori del convegno, ha lanciato la proposta di una Pax Berlusconiana? Un’idea sicuramente immaginifica, ma fino a che punto può essere concretamente percorribile?
In due diversi momenti della nostra storia una Pax ha posto fine a decenni di laceranti guerre civile e permesso all’Italia di riprendere in mano il suo futuro. Mi riferisco alla Pax Augustea, celebrata nell’Ara Pacis. E, in tempi più recenti, alla Pax Togliattiana. Nell’ultimo dopoguerra il Paese si ritrovò con circa 140mila persone da processare per crimini atroci, come l’omicidio. Esiti terribili di conflitti che spesso nulla avevano di realmente “politico”, ma derivavano da regolamenti di conti per il potere. In quella situazione l’allora ministro di Grazia e Giustizia Palmiro Togliatti emanò un provvedimento di pacificazione generalizzata, un’amnistia grazie alla quale fu possibile porre le fondamenta per l’Italia democratica in cui viviamo oggi.
Ritiene dunque che si debba accogliere e sostenere la proposta di amnistia avanzata con forza da Marco Pannella, anche nei confronti del premier?
Qui va fatto un distinguo. La proposta di amnistia va accolta e sostenuta, ma per quanto riguarda Berlusconi il discorso è diverso. Pannella ha parlato di un “salvacondotto”, da altre parti si è sentito dire che potremmo “far uscire la sua famiglia dall’Italia”. Proposte inaccettabili e, prim’ancora, del tutto improponibili. Simili idee potevano riguardare Saddam Hussein. O possono oggi essere ipotizzate per Gheddafi. Ma L’Italia non è l’Iraq né la Libia. E Silvio Berlusconi non è certo un dittatore. Per questo noi sosteniamo l’idea di una Pax Berlusconiana, che sia lo stesso premier a promuovere. Non per se stesso, ma per il bene del Paese.
Con la Fondazione Salvemini porterà avanti questo discorso?
Certamente. Il convegno del Capranichetta è stato solo il primo momento di confronto ed aggregazione che la Fondazione ha promosso su temi di stringente attualità politica, via via sempre più urgenti. Altri ne seguiranno, mentre stiamo mettendo in campo una linea editoriale a sostegno delle nostre proposte, sempre sulla scia degli insegnamenti di un grande meridionalista come Gaetano Salvemini.
Rita Pennarola

Nella foto di apertura, Elio Veltri (a sinistra) e Renato d'Andria in un momento del convegno.

La stringente attualità del convegno “Dalla Pax Togliattiana alla Pax Berlusconiana” (Renato d'Andria)

Mercoledì 28 Settembre 2011 13:49
E’ stato solo un puro caso che il premier Silvio Berlusconi si sia recato al Colle proprio il 22 settembre, lo stesso giorno in cui in cui si trovavano a confronto alcuni fra gli esponenti di punta del mondo giuridico, della politica e del panorama giornalistico, sull’ipotesi di una Pax Berlusconiana?
Nel corso dell’incontro col capo dello Stato Giorgio Napolitano, Berlusconi ha inteso rassicurare il Paese circa la sua ferma volontà di condurre in porto la legislatura, quasi a replicare alle voci di “exit strategy” che si rincorrono da più parti e che sono culminate, appunto, nell’ipotesi avanzata durante il convegno tenutosi al Capranichetta ieri, 21 settembre.
Coordinati da un brillantissimo Mario Sechi, i relatori hanno dato vita ad un acceso confronto sulle reali possibilità di individuare una via d’uscita percorribile dalla morsa della crisi, «che è crisi politica prima ancora che economica».
Il concetto di Pax Berlusconiana è stato illustrato in apertura da Renato d’Andria, presidente della Fondazione Gaetano Salvemini che ha promosso l’incontro. Per d’Andria, l’autentica guerra civile e giudiziaria che ha fin qui dilaniato il Paese può trovar fine in un provvedimento legislativo che, andando ben oltre amnistia e condono, conduca in tempi rapidi ad una sorta di pacificazione nazionale e restituisca così slancio ad un’economia in ginocchio.
Non guerra civile è stata – a giudizio di Oliviero Beha, mapiuttosto una “pace incivile” da cui si fa fatica ad uscire. Giudizio sostanzialmente condiviso da Filippo Facci di Libero, le cui previsioni circa la reattività degli italiani risultano ancor più fosche. Anche perché si continua ad assistere a paradossi come quello ricordato da Roberto Giovannini de La Stampa: «in Italia spingiamo per l’uso dei mezzi pubblici, ma stiamo chiudendo l’unica fabbrica di autobus che era rimasta aperta nel Paese».

Di tutto rilievo sono poi arrivate, sul versante delle azioni da intraprendere, le analisi del costituzionalista Michele Ainis, il quale ha posto sul tappeto, con la consueta efficacia, alcuni fra i rimedi possibili alla attuale crisi di sistema. Tanto per cominciare, meccanismi di “revoca dell’eletto”, quando necessario, analogamente a quanto già accade in diversi Paesi del mondo occidentale; e poi potenziamento delle iniziative di legge popolare che, così come si configurano attualmente, altro non sono se non «una supplica al sovrano», e in quanto tali vengono trattate. Al professor Ainis ha fatto eco Giuseppe Fortunato dell’Autorità Garante per la Privacy, avvocato, da sempre schierato in difesa della partecipazione popolare anche in quanto fondatore del vasto movimento “Civicrazia”.
«Ma la vera priorità – ha detto Rocco Buttiglione – resta la riforma dei partiti». Nel corso del convegno il presidente Udc ha annunciato infatti la proposta di legge che prevede, fra l’altro, meccanismi di obbligatorietà della democrazia interna, norme precise sull’uso del denaro pubblico e candidature scelte attraverso primarie a scrutinio segreto.
Anche perché «continuando di questo passo, con le cricche dei banchieri a decidere sui destini del mondo – ha osservato con la solita grinta il senatore Idv Elio Lannutti – ai nostri figli lasceremo in eredità solo carte revolving scadute…».
Se Elio Veltri aveva scaldato la sala in apertura con l’appassionato ricordo d un insegnamento attualissimo, quello di Gaetano Salvemini, non meno coinvolgente è stata la conclusione del convegno, con un Sergio D’Elia, presidente di Nessuno Tocchi Caino, che ha toccato i tasti più dolenti del Paese e della nostra coscienza. «Non di debito pubblico a carattere finanziario si deve parlare – ha detto D’Elia – ma di un debito ben più pesante, quello che la giustizia italiana ha accumulato nei confronti della popolazione, con una montagna da 3 miloni e 300 mila processi pendenti ed una “amnistia clandestina”, riservata ai ricchi, che si chiama prescrizione».

Roma, 22 settembre 2011

Ufficio stampa Fondazione Gaetano Salvemini
Rosa Rita Pennarola (Renato d'Andria)

giovedì 6 ottobre 2011

TV E INFORMAZIONE: PIU’ DEMOCRAZIA O PIU’ ESCLUSIONE SOCIALE? (Renato d'Andria)


Oggi più che mai la classe dirigente ricorre al mezzo televisivo per comunicare con il proprio elettorato. I comizi sono ormai passati di moda, i tavolini ridotti a semplici spazi di propaganda e i circoli di partito a poco più che bar sport di quartiere, ed è quindi proprio attraverso il piccolo schermo che i politici contemporanei cercano più che di comunicare, di influenzare e/o pilotare le posizioni dei telespettatori. Gli elementi di un “talk show” politico comprendono essenzialmente: - Un conduttore spesso arrogante ed apparentemente energico - Rappresentanti dei due schieramenti (Destra e Sinistra) in posizioni visibilmente contrapposte, come in Parlamento - Alcuni eminenti specialisti (economisti, giornalisti, ricercatori, ecc...) presenti in studio o in diretta da posti o località di prestigio - Un pubblico piazzato alle spalle dei politici e posizionato come i tifosi allo stadio. Guardi queste trasmissioni e subito ti vengono immediate alcune considerazioni: - Lo spazio in questione sembra come un’arena in cui si debbano affrontare dei gladiatori - L’eccitazione dello scontro e della prevaricazione domina la scena ed i contenuti che vengono (raramente) esposti passano in secondo piano - Il conduttore apparentemente cerca di smorzare i toni dei contendenti, ma in realtà li fomenta costantemente in quanto ciò che più conta è l’audience e non il far passare messaggi troppo chiari e/o diretti al pubblico a casa - Gli specialisti appaiono quasi sempre come degli “agnellini” nei confronti dei politici in studio, evitando di entrare troppo in contrasto con loro - Il pubblico in studio e a casa non viene quasi mai coinvolto e quando ciò accade, la cosa si risolve in un intervento molto limitato ed incompleto - La telecamera concentra tutta la sua attenzione sui contendenti e sul conduttore, cercando di far risaltare qualsiasi elemento, anche facciale-espressivo, che possa suscitare un interesse maggiore fra il pubblico - La pausa pubblicitaria viene a volte usata per evitare che vengano diffuse cose non previste nella scaletta programmata - Le domande appaiono spesso pilotate e l’impressione è che i politici siano spesso tutt’altro che spontanei nelle loro dichiarazioni. Tutto questo a dimostrazione di quanto siano inutili queste trasmissioni per tutte/i coloro che vogliano davvero farsi una vera e propria cultura politica ed accedere ad informazioni che siano in grado di farli crescere come soggetti civili e quindi anche politici. In parole povere, sono eventi in cui viene diffusa solo una patetica propaganda politica, dai contenuti vuoti e/o effimeri e che si riduce solo ad una blanda espressione di protagonismo da parte dei partecipanti. Quindi, non vedremo mai in tali sedi specialisti davvero scomodi come Gianni Lannes, Gianni Minà o Fernando Imposimato, né vedremo mai conduttori autenticamente costruttivi nel dibattito, né tantomeno vedremo mai il pubblico essere parte effettivamente integrante e partecipe in modo costante dello stesso. E quest’ultimo punto è la prova (semmai ce ne fosse ancora bisogno) che la gente comune è effettivamente esclusa dalla politica e ridotta ad una mera comparsa a cui la classe dirigente ricorre solo di tanto in tanto per avere voti e nulla più! Yvan Rettore

I MASS MEDIA HANNO IL DIRITTO DI CRITICARE LA MAGISTRATURA. PAROLA DI CASSAZIONE (Renato d'Andria)


Secondo una importante sentenza della Cassazione, pronunciata qualche settimana fa, i mass media possono attaccare il potere giudiziario. Facendo propria la giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che ha definito i giornali i “cani da guardia” della democrazia e delle istituzioni, la Cassazione scrive: «il ruolo fondamentale nel dibattito democratico svolto dalla libertà di stampa non consente di escludere che essa si esplichi in attacchi al potere giudiziario». E aggiunge che i mass media «costituiscono il mezzo principale diretto a garantire un controllo appropriato sul corretto operato dei giudici». Ancora la Suprema Corte riconosce che se «da un lato è di enorme interesse per la comunità nazionale la corretta e puntuale esplicazione dell’attività giudiziaria, dall’altro, la critica e cronaca giornalistica volte a tenere o a ricondurre il giudice nell’alveo suo proprio vadano non solo giustificate ma propiziate». La sentenza è stata pronunciata in merito ad un ricorso presentato dall’ex parlamentare Tiziana Maiolo che, in un comizio pubblico, aveva attaccato la Procura di Palermo allora guidata da Giancarlo Caselli paragonandola ad una «associazione a delinquere di tipo istituzionale». Va sottolineato ancora un altro passaggio della sentenza: «all’interno delle società democratiche deve, di conseguenza e soprattutto, riconoscersi alla stampa e mass media il ruolo di fori privilegiati per la divulgazione extra moenia dei temi agitati all’interno delle assemblee rappresentative e per il dibattito in genere su materie di pubblico interesse, compresi la giustizia e l’imparzialità della magistratura». - La Redazione
La ringraziamo per l’importante segnalazione e non possiamo che condividere il parere della Suprema Corte. Anche perché è indispensabile una riforma della legislazione in materia di più ampio diritto all’informazione, ma anche di pene più rigide per quella certa parte della stampa stampa che, al contrario, agisce in nome di interessi di parte e non di quelli collettivi.

lunedì 3 ottobre 2011

NAPOLITANO: PAESE UNITO O NON CRESCERA’

Un altro appello all’unità da parte del Presidente della Repubblica Napolitano. All’indomani delle critiche dure nei confronti degli appelli di Umberto Bossi alla secessione, il Presidente, in visita a Napoli, è chiarissimo “O questo Paese cresce insieme o non cresce”, rispondendo a chi gli chiedeva se lo sviluppo dell’Italia non sia imprescindibile anche dallo sviluppo del Sud.

L’Italia è una e una sola e “il popolo padano non esiste”. In questa Italia serva, ” di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincie ma bordello!“, come cantava Dante, l’ inquilino del Colle richiama le forze politiche, sociali ed economiche all’unità e alla sobrietà.

Secondo Napolitano “Si impreca molto contro la politica, ma attenzione ma la politica siamo tutti noi”.

Il riferimento, nella visita presso la Facoltà di Ingegneria della Federico II di Napoli dove, sabato 1 ottobre, Napolitano ha ricevuto la prima tessera ad honorem dell’Associazione ex allievi, è anche alle recenti contestazioni di Diego Della Valle.


Articolo preso da www.fondazionesalvemini.it

(Renato d'Andria amministratore della fondazione)

CASINI APRE A MARONI, IL PDL SULLE PREFERENZE

Alle recenti parole del Ministro Maroni, sulla necessità di andare avanti con il referendum, fa eco il leader dell’UDC, Pierferdinando Casini che incalza: ” Con questa maggioranza impossibile fare riforma elettorale“.

E’ ancora Casini che spinge per “dare la parola ai cittadini”, mentre Pier Luigi Bersani si mostra fiducioso sullo stadio terminale dell’esecutivo “anche perchè, ogni qualvolta Berlusconi e i suoi dicono che rimarranno fino al 2013 lo spread va su”.

Anche il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, si aggiunge al coro dei sì “Una volta tanto sono d’accordo sia con Casini sia con Maroni: i tempi sono maturi per andare ad elezioni. D’altronde, non ci sono alternative se non si riesce a cambiare la legge elettorale in questa legislatura. Quindi le strade sono due: o elezioni subito o referendum. L’Italia dei Valori è disponibile ad entrambe le soluzioni“.

Cosa ne pensa, invece, il padre del Porcellum ? Il Ministro Calederoli rivela come la Lega fu costretta ad accettare la legge sotto ricatto. Ai microfoni del Tg1, il leghista ha dichiarato che all’epoca della nascita dell’attuale legge elettorale “la Lega ed il sottoscritto erano a favore del Mattarellum“, ma “fummo ricattati da Casini e dall’Udc, per introdurre un sistema proporzionale” e “da Fini che voleva le liste bloccate e Berlusconi che voleva il premio di maggioranza“, a cui si aggiunse un silenzio assordante da sinistra. Sulla ipotesi di elezioni anticipate, l’esponente del Carroccio frena, preferendo ”trasformare l’attuale legislatura in una legislatura costituente” .

Nel PDL la linea ufficiale è quella attendista: “Vogliamo portare avanti le riforme costituzionali e votarle almeno in prima lettura. Poi penseremo alla legge elettorale” dichiarava Fabrizio Cicchitto, mentre oggi alcuni esponenti del partito, primo fra tutti il capogruppo del Pdl al Senato, Maurizio Gasparri, secondo cui ”la legge elettorale, quale che sia, deve consentire in primo luogo all’elettore di scegliere il premier, la coalizione, il programma. Il resto è materia di confronto“, invocano un confronto sul presidenzialismo, con l’introduzione delle preferenze.

Articolo preso da www.fondazionesalvemini.it

(con Renato d'Andria amministratore della fondazione)

martedì 27 settembre 2011

ESPERTI AL CONFRONTO PER UN PROCESSO DI PACIFICAZIONE NAZIONALE (Renato d'Andria)

Si è svolto oggi, mercoledì 21 settembre 2011, il convegno nazionale, promosso dalla Fondazione Gaetano Salvemini, dal titolo “Dalla Pax Togliattiana alla Pax Berlusconiana”.

Nella Sala Capranichetta dell’Hotel Nazionale in Roma, dall’acuta e realistica introduzione del presidente della Fondazione Renato D’Andria e dall’abile ed agile moderazione del direttore de Il Tempo, Mario Sechi, si apre la stagione politica autunnale, attraverso un confronto aperto fra parlamentari, giuristi e giornalisti, sulla condizione non solo politica in cui l’Italia versa da tempo.

Una manifestazione dal senso particolare, promossa dall’interesse a far sì che molte menti e molte persone che hanno a cuore le sorti dell’Italia e, in particolare, del Mezzogiorno, negli ultimi anni molto trascurato, possano unirsi per realizzare iniziative volte al bene del Paese” è questo l’incipit del presidente Renato D’Andria che riconosce all’Italia una condizione di autentica guerra fra gruppi di potere contrapposti. Una guerra che ha minato le sorti economiche e sociali del Paese negli ultimi vent’anni “in cui le lobby giocano dietro le quinte a discapito degli italiani, e noi ci teniamo a che questo non avvenga” trovando “una strada per una pacificazione nazionale che già ha avuto in passato delle opportunità che si sono verificate anche in anni lontani, non ultima quella togliattiana. Il popolo non può sopportare situazioni abnormi, le lobby non possono giocare sulla vita degli italiani, bisogna trovare velocemente una soluzione democratica, giusta, eguale e fare in modo che tutto venga a riportarsi nel suo alveo”. Non a “salvacondotti” o “exit strategy”, dunque, ma riferimento a modelli storici epocali, come la Pax Augustea e la Pax Togliattiana.

La figura di Gaetano Salvemini resta ben impressa nelle menti dei presenti con le parole di Elio Veltri (Democrazia e Legalità) che, nel discorrere sulle qualità dell’economista nonché grande politico italiano, ricorda alla platea la celebre citazione “Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere”. (Renato d'Andria)

Dall’idea di una politica proba e intellettualmente onesta, secondo cui “l’ umiltà è la via maestra per la tolleranza e la libertà” lanciata da Veltri, si sono susseguite notevoli riflessioni sulla condizione del Paese, da cui è scaturito un fervente dibattito sui valori e sulledinamiche della politica odierna.

Sostanziale conferma alla diagnosi del presidente D’Andria arriva dalle parole del costituzionalista Michele Ainis (Università Roma Tre), che descrive l’Italia come un “paese disunito, frastagliato, in una guerra civile silenziosa”. Per due ragioni, perché “questo Paese è frastagliato in lobby, corporazioni, caste che sono l’una contro l’altra” e perché “si è aperta una frattura tra la società politica e la società civile”, dovute soprattutto al potere delle corporazioni, l’immobilità sociale, principalmente intergenerazionale in cui “i parenti sono più importanti dei talenti”, una scarsa libertà economica e un indice di competitività basso. Una crisi che non è solo etica e di legalità ma anche di eguaglianza e di efficienza. Quale la cura? Un meccanismo che possa rendere vincolante una qualche rotazione delle cariche, non solo politiche, ma anche dirigenziali e che coniughi all’esercizio del potere la responsabilità del rendere conto del proprio operato.

Secondo Oliviero Beha (Rai) ci troviamo nelle condizioni di una “pace incivile”, di “democrazia sfatta che si chiama ancora democrazia”, inoltre, “la rievocazione della pax togliattiana ha una sua dimensione spazio temporale che non può essere riproposta oggi, poiché le ragioni del suo essere sono polverizzate in questa organizzazione sociale”. (Renato d'Andria)

Per Filippo Facci (Libero) il problema reale è che non succede nulla di concreto per l’abbattimento della attuale condizione politica da parte della società civile. “Il naufragio della politica odierno è avvenuto in totale assenza di tensione, la pace incivile è pericolosa perché si traduce da una parte nella disaffezione e nella narcotizzazione della società civile, dall’altra nella esistenza di una politica che non è politica, da far sparire”. Tale condizione genera effetti a medio lungo termine di cui ora non abbiamo sentore, ma che saranno dannosi per la nazione.

Il punto di vista del senatore Elio Lannutti (Idv) si esprime in una esigenza di recupero degli ideali e delle condizioni che riportino i rappresentanti politici al loro compito originario, il mettersi a servizio del popolo. “Il politico non deve avere i paraocchi, deve avere una visione, che non c’è più. Altrimenti saremo sempre sotto ricatto delle oligarchie che dal 7 luglio 2007 hanno distrutto 40 milioni di posti di lavoro, ci vuole un nuovo coraggio al di là di destra, sinistra o centro. Solo così avremo una speranza per i nostri giovani”.

Sergio D’Elia (Nessuno Tocchi Caino), invece, parla di “un regime che dura da 60 anni. Berlusconi non è altro che un prodotto dei due trentenni precedenti” pertanto “va voltata pagina” rispetto ad un passato. Va risolta, poi, necessariamente, la questione della giustizia. Una questione istituzionale e sociale. “Il nostro Paese viene condannato mille volte dalla giustizia europea per come si comporta nei tribunali e nelle carceri. Il Consiglio d’Europa considera il nostro Paese, per la non amministrazione della giustizia, come un Paese non libero. La proposta di amnistia di Pannella è un atto di buon governo per tentare di ripristinare le regole democratiche del nostro paese”. (Renato d'Andria)

Roberto Giovannini (La Stampa) denuncia la mancanza di consapevolezza delle condizioni reali del Paese. “Non ci si rende conto di qual è la realtà, sul fronte del lavoro, sul fronte dell’economia, non si parla della condizione delle persone. Avete fatto caso che ogni giorno apre un “Pronto Oro”, che si comprano meno pacchetti di sigarette e più di tabacco? Secondo Confcommercio negli ultimi 40 anni la spesa di consumo è raddoppiata fino al 42%, la quota di consumi liberi diminuita dal 77% al 60%. Un giovane su tre non ha lavoro e forse non lo troverà. Milioni di persone non hanno un futuro programmabile. Il Ministro Sacconi ha detto che se non sei sicuro di poter licenziare, non puoi assumere. Viene meno la vaga speranza di trovare qualcosa che vada oltre i tre mesi”. A tale condizione, il giornalista propone unapacificazione economica che dia stabilità, reddito, consumi, vita migliore.

Giuseppe Fortunato (Autorità Garante per la Privacy), nell’operare una sintesi delle varie posizioni degli intervenuti al dibattito, richiama l’attenzione sull’importanza della politica in quanto cosa bella. “Stiamo affrontando una grande questione politica. Il nodo di fondo è che è andato crescendo e sviluppandosi un modello di rapporti che potremmo definire capo-partitocrazia. Una polemica vecchissima. Abbiamo costruito un sistema in cui anche i partiti si sono svuotati. Viviamo in un clima in cui ci sono gli assedianti e gli assediati”.L’elettore non è più soddisfatto e si è rotto il rapporto tra cittadino, classe politica ed istituzioni. “La domanda impegnativa su cui dobbiamo concentrare l’attenzione è la via d’uscita. Con un approccio vincente che non sia sfiduciato, speranzoso o appellante. La soluzione non può essere relegata alla transazione con la classe politica. È necessario che ci sia un interventismo pacifico, la società deve esprimersi. Non è il momento di affrontare soltanto le piccole emergenze, ma il momento che i cittadini tutti uniti dicano le stesse cose che la classe politica dice, mette nei programmi ma ancora ha da realizzare”.

Il Vice Presidente alla Camera Rocco Buttiglione (Udc) chiude la giornata di lavoro con degli interrogativi sulla questione democratica Perché i partiti italiani sono senza democrazia? Perché in Italia i canali della comunicazione politica sono intasati? La costituzione italiana prevede che i partiti devono essere democratici e che lo Stato può fare una legge per garantire la democrazia interna dei partiti. Però non l’abbiamo fatta perché in Italia ci sarebbe stata una guerra civile”. Secondo l’ Onorevole è venuta meno la questione ideale: “la politica è corrotta ma anche la società non sta molto meglio. Quanta gente vota perché gli è stato fatto un favore. Si è corrotto anche il corpo elettorale. Bisogna ricostruire. La politica è responsabilità, perché si decide della vita degli altri”.

Si conclude con un lungo dibattito con la platea questo primo passo verso la ricostruzione di un dialogo costante con la società civile, dove il movimento, il dialogo con il popolo potranno alimentare la partecipazione e il cammino verso una società italiana ricca, collegata, in una parola, migliore. (Renato d'Andria)

martedì 13 settembre 2011

STUDIO SULLA SOCIALDEMOCRAZIA OGGI (Jonathan Curci, Renato d'Andria)


Prefazione:



Da poco Renato d’Andria ha ripreso la leadership del partito socialdemocratico italiano. In questo scritto sviluppo alcune riflessioni sull’attualità del concetto politico di socialdemocrazia, con l’auspicio che esse possano risultare utili all’impegno di Renato d’Andria teso a fare di questo partito una forza di speranza e di rinnovamento per la politica italiana.


Articolo:

Il concetto di “socialdemocrazia” è stato di grande rilevanza nel secolo passato ed è perciò opportuno chiedersi come si collochi nella situazione politica attuale del nostro paese.
Nel contesto europeo, spesso sin dalla fine dell’800 la socialdemocrazia era schierata in un insieme di movimenti politici contrapposti al cosiddetto “liberalismo” o al cosiddetto “capitalismo”. Ma le diverse ramificazioni socialiste, fino agli effetti del socialismo più spinto, il “comunismo”, con le sue determinanti limitazioni alla libertà individuali, hanno ridisegnato le funzioni della socialdemocrazia. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
Tanto che oggi, in tempo di vincente bipolarismo preso in prestito dal mondo anglosassone, la socialdemocrazia si potrebbe inserire sia nel centro destra che nel centrosinistra. In realtà essa ancora una volta funge da collante sociale sulle rive contrapposte.


La storia della socialdemocrazia

La storia delle idee della socialdemocrazia si può ripercorrere dalla spiegazione in Wikipedia, che sembra esauriente: “Il socialismo è un ampio complesso di ideologie, orientamenti politici, movimenti e dottrine che tendono a una trasformazione della società in direzione dell'uguaglianza di tutti i cittadini sul piano economico e sociale, oltre che giuridico. Si può definire come economia che rispecchia il significato di "sociale", che pensa a tutta la popolazione. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
Si definisce socialdemocrazia quell'insieme di movimenti socialisti che accettano il concetto di economia di mercato, di proprietà privata e il muoversi all'interno delle istituzioni liberali.
La socialdemocrazia si pone tra il socialismo marxista e il riformismo borghese. Essa infatti, in un primo tempo, pur ponendosi in prospettiva critica nei confronti del capitalismo, non ritenne ancora tempo per una sua totale abolizione. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
Il ruolo che si assicurarono i partiti socialdemocratici nei decenni tra il XIX e XX secolo fu quello di lottare sia contro il riformismo borghese, che avrebbe portato la classe operaia a legarsi troppo al sistema capitalistico, che contro l'avventurismo rivoluzionario marxista, che avrebbe portato a scontrarsi con le strutture ancora solide del sistema. La socialdemocrazia non tende a farsi garante della sopravvivenza del sistema, ma vuole lavorare al suo interno per portare uno spirito di rinnovamento e di trasformazione costante.
Le evoluzioni successive portano la socialdemocrazia a farsi portatrice del compromesso tra il riformismo liberale dei borghesi e i principi più importanti della dottrina socialista riformista: durante gli anni tra i due conflitti mondiali, con la proposizione di due modelli forti come quello sovietico e quello fascista, i socialdemocratici rappresentarono l'alternativa democratica e riformista. Socialdemocrazia e comunismo giunsero spesso allo scontro frontale, in cui i socialdemocratici vennero trattati da "socialtraditori" o "socialfascisti", per ritrovare successivamente un progetto comune contro il regime fascista e nazista. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
Nel secondo dopoguerra, la socialdemocrazia riassume in occidente un ruolo importante tra le forze politiche dominanti nonché il naturale approdo per tutti i socialisti riformisti e i democratici progressisti, essa fu inoltre capace di proporre significative trasformazioni, come la nazionalizzazione di alcuni settori produttivi, l'instaurazione di un'economia mista e il raggiungimento di forme di sicurezza sociale per i lavoratori.
Le socialdemocrazie contemporanee sono partiti politici che hanno abbandonato l'idea della divisione della società in classi contrapposte e ogni progetto di stampo ottocentesco; del vecchio modello rimane solo la prospettiva internazionalista che ribadisce il principio di un'azione comune tra tutte le forze socialiste, socialdemocratiche o genericamente riformiste dei singoli Paesi, nel rispetto delle diverse storie nazionali, delle diverse situazioni economiche e della pluralità delle tradizioni culturali e ideologiche. In molti casi inoltre, anche significative componenti del mondo cattolico-sociale e riformista hanno trovato nella socialdemocrazia un ottimo approdo.” (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)

La socialdemocrazia oggi

Partendo da queste idee comuni e generali sulla socialdemocrazia ci spingiamo a dare uno sguardo al futuro sul posizionamento e sull’identità della socialdemocrazia rispetto alle sfide che affronta l’Italia.
Da un lato possiamo dire che l’attacco velleitario del movimento comunista ha posto alcuni compromessi che sono a base del debito pubblico e della larga spesa statale, che è in generale il vero problema di una società moderna al di là dei regimi comunisti. Nel contesto italiano, le concessioni assistenziali hanno spesso frenato gli attacchi rivoluzionari che ispiravano le classi proletarie.
Possiamo dire che la socialdemocrazia è stato il vero mare che normalmente si frapporne fra il dire e il fare.
Il dire è rappresentato dalle ideologie forti e cioè il liberalismo che si poggia sulla responsabilità personale e il socialismo che pone la società al centro di ogni iniziativa.
Senza la socialdemocrazia, per esempio in Italia, non avremmo avuto i governi di pentapartito durante la parte preponderante della prima repubblica dopo la guerra mondiale.
Saragat è sicuramente stato, con Ugo La Malfa, uno dei principali artefici del pragmatismo italiano, della confluenza liberale in una società molto votata al proletariato, in un ambiente in cui c’era un forte partito Democristiano, vista l’influenza del cattolicesimo e dello Stato del Vaticano in Italia.
Oggi la domanda vera è come affrontare gli esiti di questo compromesso, anche alla luce della stretta economica derivante dall’ammontare del debito pubblico. Per fare un esempio, autorevoli commentatori giudicano l’ultima manovra di Tremonti una riforma di stampo socialista. Un grande debito pubblico blocca costantemente ogni possibilità di investire nella crescita. Certamente il sistema assistenziale italiano è stato la causa del debito: molti dipendenti pubblici, molto welfare. Se si vuole continuare sulla stessa scia, tutto questo farà regredire il paese e creerà una mentalità stagnante, decisamente poco creativa.
Il tipo di società socialdemocratica da un lato pone la creatività individuale come priorità e, dall’altro, permette allo Stato di spendere solo se ci sono i mezzi e se c’è un costante controllo del singolo sull’operato pubblico. Credo che ancora una volta la Socialdemocrazia oggi può essere di grande aiuto, soprattutto nella gradualità degli interventi da mettere in campo nel cammino verso una società realmente liberale. Occorre ancora una volta uno slancio non fanatico ma pragmatico. L’obiettivo non è più contrapporsi al fanatismo comunista: occorre invece favorire l’imprenditorialità diffusa, attuare l’attesa sburocratizzazione, ridurre il carico fiscale su famiglie ed imprese, in aggiunta ad altre iniziative consentano il volontario apporto al bene comune, dopo che ciascuno avrà individuato il proprio ambito di produttività.
Diciamo che ancora una volta la socialdemocrazia, giusto compromesso sociale, ci può venire in aiuto.
Oggi il rilancio della socialdemocrazia, a mio giudizio, deve avvenire unitamente al rilancio del liberalismo. In sintesi, deve essere chiaro che la socialdemocrazia è un insieme di idee per creare strumenti sociali al fine di consentire la maggiore liberalizzazione dei singoli, affinché diventino imprenditori in meno tempo e con meno spese e burocrazia. Si deve promuovere un’imprenditoria diffusa, anche nel lavoro dipendente, in cui si mettano in gioco non solo le proprie risorse economiche, ma anche i propri talenti e studi, che rappresentano nell’epoca del terziario un grande capitale.
La socialdemocrazia, in quest’ ottica, può sanare le forme di egoismo, consentendo allo Stato di compiere veramente la sua funzione di controllo delle frodi e dei soprusi: uno stato “gendarme” che compia con onore il compito di porre le basi di diritto nei rapporti dei consociati, mettendoli nell’uguaglianza delle opportunità, pur riconoscendo le peculiarità di ognuno.


Proposte per il futuro

Ormai nelle società moderne l’esigenza della governabilità induce a scegliere un campo di azione politica più ampio del particolare movimento a cui noi ci sentiamo legati.
Il principio della tendenza, del minimo comune denominatore, del meno peggio e di ciò che più si avvicina al nostro ideale, sembrano essere gli elementi utili all’azione politica.
A mio avviso la socialdemocrazia deve essere più prossima alle tendenze liberali, che privilegiano la difesa dell’individuo, dei suoi diritti e l’esame semplice dei suoi doveri.
Dico questo perché è chiaro che le opposte tendenze, in regime di maggioritario e di alternanza, non possono che essere poste sui capisaldi appunto dell’individuo o della società, uno induttivo, l’altro deduttivo.
La mia opinione è che partendo dal singolo restiamo più vicino alle esigenze dell’uomo e comprendiamo meglio il suo sviluppo in agglomerati fondamentali come la famiglia, i gruppi religiosi e poi le postazioni politiche sempre più grandi, dal quartiere, al comune, alla regione, allo Stato e alle consociazioni federali e superstatali.
Si arriva quindi al cosmopolitismo e al ritorno all’identità umana che ci accomuna tutti.
Se invece si parte dalla società, è più facile perdere di vista le esigenze differenziate della singola persona, ci si impatta sulle necessità generali, e proprio per questo il fanatismo comunista e nazista o fascista sono arrivati a dimenticarsi del singolo, sacrificato a motivazioni sociali che poi non sono altro che quelle del dittatore o dell’oligarchia di turno.
Allora, in considerazione di queste premesse, suggerisco che la fusione politica tra il liberalismo e la socialdemocrazia può determinare un unicum capace di comprendere al suo interno differenze anche notevoli, fra chi difende l’individualismo e chi più si impegna nell’associazionismo.
E’ certo che i sistemi proporzionali creano molti partiti con volontà uniforme, che mai lo sono veramente, e che comunque creano nella pratica l’ingovernabilità.
Io sarei per un sistema maggioritario secco, per le primarie, e per la minore spesa possibile della politica che grava sulla società.
Credo che la politica debba occuparsi degli elementi necessari alla coesione sociale e al controllo di legalità, ma che ogni altra funzione debba essere lasciata ai privati e all’imprenditoria diffusa, con una tassazione semplificata che determini il contrasto di interessi tra chi fornisce e chi riceve il servizio.
In tal modo la sburocratizzazione della società può essere garantita, pur salvaguardando il controllo di legalità, fondamentale per il buon vivere sociale e per la libera espressione dei produttori.
In una società in cui prima di occuparmi di cosa voglio fare o cosa voglio produrre, io devo preoccuparmi di quale prassi debba seguire o di quante tasse debba pagare, alla fine la volontà di intraprendere risulta depressa. Possiamo quindi considerare fondamentale per il futuro quella tendenza politica che, pur difendendo il controllo di legalità, consenta ai singoli di intraprendere in libertà, focalizzando il beneficio per tutti del proprio operato, con il rispetto della legge della concorrenza, la sola capace di scegliere i migliori.
La socialdemocrazia in quest’ottica può apportare il necessario miglioramento alla vita sociale di ogni paese.
(Roma 26 Luglio 2011)


Jonathan Curci

L'AUTORITÀ NAZIONALE PALESTINESE TRA LA MORSA DEI “PALESTINE PAPERS” E LA RICERCA DEL CONSENSO INTERNAZIONALE PER LA CREAZIONE UNILATERALE DI UNO STAT

Prefazione:

di Raffaele Petroni Luglio 2011 tratto da http://www.argoriente.it/arc/paesi/palestina/palestine-ots-palestine-papers-IT.pdf

Articolo:

L'Autorità Nazionale Palestinese (ANP) da diversi mesi affronta una grave crisi interna, sia politica sia sociale, dapprima strisciante ma in seguito sempre più aperta. Questa instabilità pone seri quesiti in merito al suo futuro e mette a repentaglio la sua sopravvivenza e la sua credibilità politica all'interno dei propri confini e all'estero. Soprattutto, però, la espone al rischio di perdere in maniera sostanziale il contatto con le masse popolari e la loro fiducia: si crea quindi uno scollamento difficile da colmare tra la popolazione e la sua classe politica. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
La crisi aperta è iniziata in tutta la sua complessità con la diffusione di cablo diplomatici statunitensi riservati, dalla fine di novembre 2010 e tramite il portale Wikileaks, e si è aggravata ulteriormente con la pubblicazione del dossier Palestine Papers, contenente documenti ufficiali palestinesi, da parte dall'emittente Al Jazeera (in collaborazione con il quotidiano britannico The Guardian), dalla fine di gennaio 2011. La rivelazione di documenti di questo genere ha indotto la popolazione palestinese (residente sia nei Territori che in Israele e all'estero) a concentrare la sua attenzione, ancor più del solito, su ciò che nella politica, nel processo di pace e negli affari internazionali mediorientali avviene “off the record”.
Il dossier Palestine Papers è composto da un insieme di documenti ufficiali, email, meeting reports, appunti, mappe e tanto altro che ANP, Israele e Stati Uniti si sono scambiati nel corso dell'ultimo decennio. I contenuti considerati più compromettenti, e che più hanno spinto i palestinesi a sentirsi “traditi”, riguardano sia le proposte avanzate dall'ANP a Israele per la divisione di Gerusalemme nel quadro di un accordo finale (considerate però dal mondo arabo-palestinese più intransigente una “concessione” impropria, illegittima e sprezzante dei diritti, della cultura e della storia palestinese), sia la proposta per la risoluzione del problema dei rifugiati tramite l'accettazione di un ridimensionamento del “diritto al ritorno”, rompendo quindi con la politica palestinese, cristallizzatasi e rafforzatasi nel corso degli ultimi sessant'anni, di non scendere mai a “compromessi” su questo principio. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
La pubblicazione di questi documenti è molto più difficile da gestire politicamente rispetto alle rivelazioni trapelate precedentemente tramite il portale Wikileaks poiché, mentre per queste ultime si può sostenere che rappresentano il punto di vista “soggettivo” di alcuni diplomatici americani (riflessioni confidenziali inviate via cablo al Dipartimento di Stato a Washington), il materiale relativo ai Palestinian Papers è costituito da atti e proposte delle autorità coinvolte nei negoziati e quindi è da considerare “ufficiale”. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
Le notizie si sono diffuse rapidamente tra la popolazione; Abu Mazen (presidente dell'ANP) e Saeb Erekat (capo negoziatore dell'ANP fino a poco prima che lo scandalo scoppiasse nella sua interezza) sono i principali individui messi “sotto accusa” e chiamati a render conto politicamente del contenuto dei documenti venuti alla luce. Nonostante i loro collaboratori si siano affrettati a smentire inizialmente le rivelazioni definendole ingannevoli, i loro sforzi non sono riusciti a calmare gli animi e alla fine Erekat ha dovuto rassegnare le proprie dimissioni a seguito della scoperta che la fonte tramite cui i documenti sono stati rivelati alla stampa si trovava proprio nel suo ufficio, confermando di fatto le rivelazioni rese pubbliche . In seguito, anche il primo ministro Fayyad ha annunciato le sue dimissioni, ma queste sono state respinte da Abu Mazen, che ha anzi conferito allo stesso Fayyad il compito di formare un governo di unità nazionale, richiesto a gran voce anche dalla piazza. Le rivelazioni di Wikileaks relative alla conoscenza da parte dell'ANP dell'operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza del dicembre 2008 e gennaio 2009 (“Piombo Fuso”) avevano già scosso larga parte della popolazione palestinese residente a Gaza, in Cisgiordania e in Israele, e aveva indotto molti a definire Abu Mazen e Saeb Erekat “complici dei crimini” israeliani (rivelazione smentita categoricamente dai maggiori esponenti palestinesi)5. I documenti resi noti da Al Jazeera hanno portato a una vera e propria rivolta verbale, nonché a una campagna di discredito, guidata da Hamas, a danno dei dirigenti di Fatah6. A seguito delle dimissioni di Erekat e della conseguente necessità di procedere a una riorganizzazione sia dell'ANP che del partito Fatah, Abu Mazen ha indetto nuove elezioni7, esponendo l'assetto politico palestinese a una fase d’incertezza politica e sociale, caratterizzata dall'aumento delle distanze tra la popolazione e la classe politica8. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
In questo quadro, il sostegno e il supporto morale e politico che gran parte della popolazione palestinese residente nei Territori ha mostrato verso le agitazioni popolari che hanno scosso inizialmente la Tunisia, l'Algeria e l'Egitto, e successivamente anche lo Yemen, la Libia, il Bahrein, la Giordania, la Siria e in parte l'Iran, ha complicato la posizione dei vertici dell'ANP, facendoli diventare bersaglio delle richieste provenienti dal basso di un cambiamento socio-politico nei Territori9.
Gli sconvolgimenti che dalla metà di gennaio interessano il Medio Oriente e il Nord-Africa stanno inducendo molti, dentro e fuori queste regioni, a studiare più attentamente il legame tra mass-media, rivendicazioni socio-economiche e governi. Il diritto all'informazione nel mondo arabo è sempre stato interpretato in un'ottica riduttiva, assoggettandolo alle necessità e agli interessi dei regimi in carica. Non stupisce, quindi, che da più parti ci si sia chiesti quale progetto politico abbiano realmente Wikileaks e Al-Jazeera10, e che molti governi regionali li abbiano accusati di voler fomentare sommosse popolari e di voler agire contro la pace sociale nella regione. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
Le critiche ai portali si sarebbero potute attenuare solo nel caso (improbabile) in cui le loro rivelazioni avessero provocato un rafforzamento e una saldatura più forte (difficile da verificarsi nella maggior parte dei casi) tra i regimi e le masse popolari. Alla luce delle ripercussioni per l'ANP, un atteggiamento critico verso i network informativi è stato tenuto anche da alcuni esponenti di spicco all'interno dei Territori palestinesi, in particolare da Saeb Erekat, protagonista degli scandali politici locali11.
Come già mostrato in passato da Arafat in situazioni analoghe, anche l'amministrazione dell'ANP diretta da Abu Mazen non sembra avere come priorità nella propria agenda la risoluzione dei problemi interni tramite il varo di un piano strutturale che affronti le criticità economiche e sociali presenti nei Territori palestinesi, ma quella della sopravvivenza politica, sfruttando la carta dell'ostilità verso le politiche israeliane per aumentare il consenso. Questo modo di agire non ha mai pagato nel lungo termine in passato, e difficilmente lo farà nel presente. Di questo sono ben consci anche gli esponenti di Fatah, ma è la sola carta che in questo momento di “campagna elettorale” informale ritengono di avere a disposizione per scongiurare un risultato negativo analogo a quello del gennaio 2006, in cui Hamas ha ottenuto percentuali schiaccianti di voti anche a Gerusalemme Est. Per l'ANP è iniziata una crisi politica interna e internazionale senza precedenti e le cui ripercussioni dureranno nel tempo.
Alle difficoltà attuali di Fatah si aggiungono, anche se meno plateali, quelle di Hamas, la cui popolarità a Gaza è decisamente in calo dati i problemi economici che la Striscia affronta e la sfida politica lanciata dai gruppi salafiti, che sta portando in alcuni casi il Movimento Islamico a perdere il controllo della sicurezza interna12. Ciò configura quindi una situazione di stallo e d’instabilità per i due maggiori partiti palestinesi, aprendo la strada a eventuali programmi alternativi presentati da nuovi soggetti politici fino ad ora messi un po' in disparte, quali ad esempio quelli di una “Terza Via” prospettata dal partito Iniziativa Nazionale Palestinese guidato da Mustafà Barghouti e Hanan Ashrawi e al quale lo stesso Fayyad è in qualche modo legato. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
L'ANP, e con essa Fatah, ha quindi la necessità, ma soprattutto l'urgenza politica di dare un segnale forte per riguadagnare terreno, credibilità, consensi e legittimità presso la propria popolazione. La via che sta attuando per ottenere questi obiettivi comprende: 1) la “pacificazione” interna con Hamas (mossa fortemente criticata da Israele, che la giudica una prova del rifiuto palestinese a giungere a un accordo di pace13), avviata ufficialmente alla fine di maggio con la mediazione del nuovo regime egiziano, con un accordo di massima per la creazione di un governo di unità nazionale, non ancora concretizzatasi per i contrasti sulla scelta del primo ministro, dato che il Movimento Islamico si oppone alla conferma di Fayyad; 2) l'intransigenza diplomatica nei confronti d'Israele, dimostrata principalmente dal rifiuto categorico di tornare al tavolo delle trattative senza un nuovo congelamento da parte del governo di Gerusalemme della costruzione degli “insediamenti”14; 3) il tentativo di ottenere una condanna ufficiale della politica di Israele tramite una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite15; 4) il tentativo di raccogliere il consenso internazionale necessario per la creazione di uno Stato proprio in sede ONU, mediante una risoluzione dell'Assemblea Generale approvata con il richiamo alla procedura “Uniting for Peace” in occasione della prossima riunione, prevista nel mese di settembre. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
La procedura “Uniting for Peace” è un procedimento particolare che riguarda il potere d'intervento dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nelle situazioni di rottura della pace: si applica in caso d’incapacità o impossibilità del Consiglio di Sicurezza di superare le impasse createsi e autorizza l'Assemblea a decidere il varo di ogni misura necessaria per il ristabilimento della pace e la fine delle ostilità, compreso lo schieramento di contingenti militari operanti sotto mandato delle Nazioni Unite16. La possibilità di applicare questa procedura al conflitto mediorientale per la creazione “forzata” di uno Stato palestinese, però, è messa fortemente in dubbio dal diritto internazionale e pone a serio repentaglio la sopravvivenza giuridica e politica dell'ANP. Infatti, non solo una risoluzione dell'Assemblea Generale non avrebbe il potere “positivo” di alterare lo status giuridico dei Territori Palestinesi, ma avrebbe anzi l'effetto negativo di rendere vano il processo di pace poiché la scelta palestinese di “imporre” una soluzione al di fuori delle trattative diplomatiche violerebbe l'impegno assunto da Arafat (a nome dell'OLP e dell'ANP) di risolvere ogni questione tramite negoziati17, impegno sancito dagli stessi accordi sottoscritti tra le parti, e cederebbe il fianco a un'eventuale denuncia di violazione dei trattati da parte d'Israele presso le corti di arbitrato internazionale18. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
La via “internazionale” intrapresa dall'ANP è una strada pericolosa, che può far degenerare il già fragile e instabile contesto in una situazione ancor più conflittuale; sia la parte palestinese che quella israeliana nel corso degli ultimi mesi hanno investito tutto il capitale politico internazionale a disposizione nel tentativo di convincere le varie diplomazie ad appoggiare la propria causa in vista della riunione dell'Assemblea Generale di settembre. Le diplomazie internazionali che più hanno tentato di svolgere un ruolo determinante tra le parti, dal canto loro, sono molto indecise sul da farsi. La crisi che il mondo arabo sta affrontando, infatti, ha reso la situazione più complicata da districare perché le platee e le società civili arabe (che percepiscono Israele come un “regime imperialista” alla stessa stregua dei vari dittatori locali) vedranno nel voto di settembre un “segno”, una linea di “demarcazione” tra chi è a favore delle masse locali e chi invece appoggia i “regimi”. Solo buon senso, pragmatismo e la piena presa di coscienza, da parte palestinese, del rischio politico e giuridico che corre, e quindi la scelta di non intraprendere la strada della procedura “Uniting for Peace”, possono consentire di superare l'impasse in cui i negoziati si sono arenati.



Raffaele Petroni

La strage di Oslo e la questione palestinese


Prefazione:

Pubblichiamo una lettura non convenzionale della strage di Oslo, che mette in relazione i sanguinosi attentati con gli imminenti negoziati per la cessazione della guerra israelo-palestinese. Ed un'Europa in bilico sulla posizione da assumere.

Articolo:

L'attentato terroristico nella città di Oslo, rivendicato da siti islamisti, non è quello che può sembrare. Esso infatti va inquadrato su due punti fondamentali: a) il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell'ONU e che Israele e Stati Uniti non vogliono; b) le voci di un attacco israelo-statunitense all'Iran per settembre.
L'Europa è l'anello debole in questo gioco a scacchi tra palestinesi e mondo arabo da una parte e Israele e Stati Uniti dall'altra. A qualcuno - Mossad-Cia - serve terrorizzare l'Europa e soprattutto quei paesi che all'ONU potrebbero votare a favore della creazione di uno stato palestinese. La Norvegia è proprio uno di questi paesi. Colpire e minacciare dunque quei paesi europei che ancora sono indecisi e nello stesso tempo mostrare alle opinioni pubbliche occidentali che con il mondo arabo non si può trattare. Una edizione riveduta e adattata della dottrina neocon americana dello scontro di civiltà già vista sotto Bush. Se questa analisi è giusta è probabile allora che anche altri paesi europei saranno presto colpiti dal terrorismo "islamico". (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
Ma questi atti terroristici servono anche a preparare psicologicamente la gente ad un sempre più probabile attacco all'Iran. Della serie: noi siamo i buoni e loro i cattivi da distruggere... Questa che è iniziata è dunque una vera e propria guerra di propaganda psicologica di massa in cui il terrore terroristico è foriero di ulteriori gravi sviluppi internazionali.
Il popolo palestinese ha chiesto al mondo intero di riconoscere lo stato della Palestina. Oltre 120 paesi hanno risposto all'appello, ma gli Stati Uniti e Israele si sono opposti e i leader europei non hanno ancora deciso da che parte stare. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
UN APPELLO DALLA PALESTINA Fra quattro giorni si riunirà il Consiglio di Sicurezza dell'ONU, e il mondo intero avrà la possibilità di adottare una nuova proposta che potrebbe segnare il cambio di rotta di decenni di negoziati di pace fra israeliani e palestinesi: il riconoscimento da parte dell'ONU dello stato palestinese.

Oltre 120 nazioni del Medio Oriente, Africa, Asia e America Latina hanno già dato la loro adesione all'iniziativa, ma il governo di destra in Israele e gli Stati Uniti sono fortemente contrari. L'Italia e altri paesi chiave dell'Europa sono ancora indecisi, e un'enorme pressione da parte dell'opinione pubblica potrebbe convincerli a votare in favore di questa opportunità per mettere fine all'occupazione. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)

I negoziati di pace guidati dagli Stati Uniti, che vanno avanti ormai da decenni, hanno fallito, mentre Israele ha imprigionato il popolo palestinese, confiscato le sue terre e bloccato la Palestina dal diventare un'entità politica sovrana. Questa nuova coraggiosa iniziativa potrebbe liberare il popolo palestinese dalla prigionia, ma perché ciò avvenga l'Europa deve guidare l'operazione. Costruiamo una chiamata globale enorme rivolta all'Italia e ad altri leader europei per dichiarare il nuovo stato ora, e facciamo sì che il sostegno dei cittadini di tutto il mondo a questa proposta legittima, nonviolenta e diplomatica sia chiaro e forte. Clicca sotto per firmare la petizione e invia questa e-mail a tutti:

http://www.avaaz.org/it/independence_for_palestine_eu/?vl

Se tracciare le origini del conflitto israelo-palestinese è complicato, la maggioranza della popolazione da ambedue le parti è invece d'accordo su un punto: il modo migliore per raggiungere la pace ora è la creazione dei due stati. Tuttavia, i diversi negoziati di pace che si sono susseguiti sono stati indeboliti da episodi di violenza da ambedue le parti, i tanti insediamenti israeliani in Cisgiordania e il blocco umanitario di Gaza. L'occupazione di Israele ha ridotto e frammentato il territorio dello stato palestinese e reso la vita di tutti i giorni dei palestinesi un inferno. L'ONU, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno annunciato recentemente che i palestinesi sono pronti per avere uno stato indipendente, ma il più grande ostacolo alla sua riuscita è l'occupazione da parte d'Israele. Persino il Presidente degli Stati Uniti ha chiesto di mettere fine all'espansione dei territori e di ritornare invece ai confini del 1967 con accordi sugli scambi di terra, ma il Primo ministro Netanyahu ha reagito furiosamente: il messaggio di non cooperazione non poteva essere più chiaro di così. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)

E' arrivata l'ora di un cambiamento epocale e di passare da un futile processo di pace a un nuovo cammino verso il progresso. Mentre Isreale e il governo americano dicono che l'iniziativa palestinese è "unilaterale" e pericolosa, in realtà le nazioni di tutto il mondo appoggiano pienamente questa mossa diplomatica che rigetta la violenza. Il riconoscimento globale della Palestina potrebbe isolare gli estremisti e incoraggiare il crescente movimento nonviolento israelo-palestinese in corso insieme al vento pro-democrazia che sta soffiando nella regione. Ma più importante ancora, potrebbe salvare il cammino verso un negoziato sugli insediamenti, permettere ai palestinesi l'accesso a una serie di istituzioni internazionali che potrebbero aiutarli a raggiungere la libertà, e inviare un chiaro messaggio al governo in favore dell'occupazione dei territori che il mondo non è più disposto ad accettare l'impunità e l'intransigenza. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)

Per troppo a lungo ormai Israele ha messo a repentaglio la speranza della nascita dello stato palestinese. Per troppo a lungo gli Stati Uniti sono stati accondiscendenti e per troppo a lungo l'Europa si è nascosta dietro gli Stati Uniti. Ora Italia, Francia, Spagna, Germania, Regno Unito e l'Alto Rappresentante dell'Ue non hanno ancora deciso da che parte stare sulla costruzione dello stato palestinese. Appelliamoci a loro perché si mettano dalla parte giusta della storia e perché sostengano la dichiarazione della Palestina per la libertà e l'indipendenza, attraverso un forte sostegno e con il necessario aiuto economico. Firma ora la petizione urgente per chiedere all'Europa di sostenere l'iniziativa e appoggia questo passo decisivo per una pace di lungo termine fra Israele e Palestina:

http://www.avaaz.org/it/independence_for_palestine_eu/?vl

La costruzione dello stato palestinese non risolverà questo lungo conflitto di punto in bianco, ma il riconoscimento dell'ONU cambierà tutto e aprirà le porte alla libertà e alla pace. In tutta la Palestina il popolo si sta preparando con molte aspettative e speranze per riprendersi la libertà che questa generazione non ha mai conosciuto. Mettiamoci dalla sua parte e facciamo pressione sull'Europa perché faccia lo stesso, così com'è avvenuto quando ha sostenuto il popolo egiziano, siriano e libico. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)

Con speranza e determinazione,

Alice, Ricken, Stephanie, Morgan, Pascal, Rewan e il resto del team di Avaaz




Claudio Prandini

martedì 2 agosto 2011

Berlusconi riprenda in mano con coraggio le sorti dell’economia italiana

di Renato d’Andria

La bufera abbattutasi su Giulio Tremonti non arriva certo a sorpresa. Da tempo circolavano voci circa le sue amicizie a rischio, in particolare lo stretto collegamento con Marco Milanese. Si nota piuttosto il “tempismo” con cui il caso Tremonti esplode oggi, quando scatta il regolamento di conti interno disposto dal sistema d’intelligence italiano. Una bomba a orologeria in piena regola: erano ampiamente noti e documentati i fatti che ora vengono alla luce. Eppure, la gran parte dei media grida allo scandalo, inseguendo le Procure con falsi scoop su fatti e personaggi tutt’altro che inediti.

LO SCENARIO

Ma intanto sale di ora in ora l’allarme per le sorti economiche del nostro Paese. «Fra noi e la speculazione - ha dichiarato qualche ora fa alle agenzie Giacomo Vaciago, docente di politica economica e monetaria alla Cattolica di Milano - non rimane più nessuno. Fino a poco tempo fa c'erano anche la Spagna e il Portogallo. Ma la mossa di Zapatero rimuove l'incertezza, sfilando Madrid dalla fila. Nessuno spara più su uno che sta uscendo. Il Portogallo poi è in corsia di soccorso, quindi ci si concentra sull'Italia: c'è il pericolo che nel mese di agosto sparino su di noi perché siamo diventati i primi della fila». 

Il problema, per il professor Vaciago, è che « noi parliamo soltanto ma non abbiamo risolto niente, anzi abbiamo rinviato gran parte della manovra al 2013-2014 e i mercati non ci credono. Per giunta, abbiamo anche indebolito il ministro dell'Economia».

Diventa insomma sempre più urgente individuare e rimuovere il fattore primario della crisi italiana: fra le tante concause esogene ed endogene, esso va ricercato nella profonda divergenza tra il premier Berlusconi ed il suo ministro dell’Economia Tremonti sulle misure da avviare ed attuare per salvare e rilanciare l’apparato produttivo del Paese.

Silvio Berlusconi, da imprenditore di lungo corso, ha sempre dettato la linea dello sviluppo, impostando azioni che a breve e medio termine potessero favorire la ripresa produttiva. Lo dimostra, prima ancora della sua storia politica, la sua vicenda d’imprenditore: ben diversamente dalla maggior parte dei suoi colleghi che si sono succeduti ai vertici di Confindustria, l’uomo di Arcore ha saputo guidare il suo impero industriale con coraggio, rischiando capitali in proprio, senza fidare in maniera parassitaria esclusivamente sugli aiuti di Stato o comunque sulla finanza pubblica. Questo merito gli va riconosciuto, al di là delle sue debolezze di uomo e di politico.

Non così la linea di Giulio Tremonti, che ha immaginato di poter calare le sue linee d’azione paralizzanti, alla Quintino Sella, dentro l’architettura politica di un governo di chiara ed esplicita ispirazione neo-liberista. Per giunta, non è riuscito nemmeno a portare a compimento questo suo disegno di errata prospettiva.

LE RIGIDITA’ CHE AMMAZZANO L’ECONOMIA

Alle critiche il ministro risponde ricordando i ferrei vincoli imposti dal sistema monetario unico, ma questo suo atteggiamento accentua la netta impressione che egli intenda trincerarsi dietro lo scudo dell’euro per nascondere la sua assoluta mancanza di coraggio nell’assumere posizioni concrete in difesa dell’economia italiana.

Ricordo che durante la crisi del 1992, il fenomeno speculativo che nell’estate di quell’anno coinvolse la lira italiana e la sterlina britannica, l’allora primo ministro Giuliano Amato scelse la strada della svalutazione, ma il 16 settembre il governo britannico assunse una posizione ancor più decisa, stabilendo l’uscita della sterlina dallo Sme. Come è noto, il Sistema Monetario Europeo ebbe le sue origini dopo il crollo del sistema di Bretton Woods e prevedeva limiti predeterminati alla fluttuazione delle diverse monete. La mossa audace decisa dal governo permise alla Gran Bretagna di sganciarsi da un sistema che stava pregiudicando le sue sorti attuali e il suo futuro.

Le regole non possono ammazzare un Paese: è il Paese che può e deve ammazzare le regole, se queste diventano artefici della sua rovina.

Con il sistema dell’euro, l’Italia è stretta dentro la morsa di regole fra le più rigide, dove a fare la parte del leone sono le economie forti, di stampo continentale, e a soccombere uno dopo l’altro, dopo la Grecia, potrebbero essere i Paesi mediterranei, diversi per storia, tradizioni, economia dai lander blindati della Germania.

Tremonti lo sa bene. E avrebbe dovuto avere il coraggio di sospendere il nostro Paese dal regime dell’euro, prima che fosse troppo tardi e che il naufragio fosse già interamente compiuto.

BERLUSCONI: INTERIM ALL’ECONOMIA ED AMNISTIA GENERALIZZATA

Una via d’uscita esiste ancora. E il mio auspicio è che Silvio Berlusconi sappia scuotersi dalla attuale fase personale di depressione causatagli da anni di pesanti attacchi mediatico-giudiziari e riprendere nelle sue mani le leve della politica economica in Italia. Quello che il Paese chiede in questo momento a Berlusconi è un atto di coraggio: sostituisca il ministro Tremonti, senza lasciarsi condizionare dal sistema politico da basso impero che lo circonda e che in parte compone la sua maggioranza di governo.

Questo è il mio primo invito. Al quale aggiungo – visto che cominciano a circolare i nomi dei possibili successori di Tremonti a Via XX Settembre – che dovrebbe essere lo stesso premier ad assumere l’interim dell’Economia, perché attualmente è l’unico che possiede lungimiranza, forza e capacità per avviare una politica seria di sviluppo: la sola che potrà traghettarci fuori dalla palude attuale.

Si assuma, Berlusconi, tutta la responsabilità di imprimere alla nostra economia la “scossa” positiva e rivitalizzante che da anni attendiamo. Ha tutte le capacità per farlo. Gli economisti di “carta”, i teorici come Tremonti, hanno quasi sempre causato danni al Paese. Aumentare il tasso e deprimere l’economia: ecco la ricetta adottata in questi anni. Questo sanno farlo tutti, anche senza essere professori. Quello che un imprenditore come Silvio Berlusconi ha, in questo momento, la marcia in più che potrà arrestare il crollo del Paese e riportarlo verso la crescita, è il colaggio dell’intrapresa, è la genialità e l’intuito di un capitano d’imprese che di mari perigliosi ne ha affrontati e superati tanti. Questa è la vera economia politica, non quella teorica del tempo in cui il mondo passava dall’economia feudale a quella industriale. Non è più tempo di ricette dei “professori” come Visco, Prodi o Tremonti, che si ammantano di socialismo fittizio per emanare regole forti con i deboli e deboli con i forti. Anche nella manovra economica attuale, restrizioni come quelle sulla tracciabilità delle operazioni non fanno altro che legare le mani alla piccola impresa e al cittadino comune, lasciando campo libero agli oligarchi e ai detentori dei grossi capitali illegali, i cui movimenti non solo non vengono minimamente “tracciati”, ma nemmeno sfiorati.

Il secondo invito che rivolgo a Berlusconi è quello di un provvedimento drastico per frenare l’autentica guerra dichiarata al Paese, agli italiani ed alle imprese dalla parte più consistente della magistratura italiana.

Accogliendo anche gli inviti alla pacificazione rivolti dal capo dello Stato Giorgio Napolitano, Berlusconi ci mostri un atto di ulteriore coraggio. Non più polemiche sulle leggi ad personam, ma piuttosto l’iniziativa risoluta di promuovere una amnistia generalizzata, capace di difendere le libertà democratiche dell’Italia, oggi in balia di una guerra civile fra le più torbide ed intestine di quelle che il nostro Paese ha subito nella sua storia.

Renato d’Andria

Presidente Fondazione Gaetano Salvemini

Segretario nazionale PSDI

mercoledì 27 luglio 2011

D’Andria: “L’Italia inverta la rotta dell’interventismo in Libia e si faccia promotrice di accordi tesi alla pacificazione”

Sulle recenti evoluzioni della crisi libica e le gravi conseguenze per l'Italia interviene in questa intervista il presidente della Fondazione Gaetano Salvemini Renato d'Andria. Che qui indica la strada maestra per l'uscita del nostro Paese da una politica di aggressione "suicida".

«Con l’Eni è finita per davvero. Abbiamo chiuso ogni cooperazione». Ha gelato l’Italia l’annuncio dato nei giorni scorsi alla stampa dal primo ministro libico Al Baghdadi Ali Al Mahmoudi. La decisione è stata presa dal rais Muammar Gheddafi, che accusa apertamente il governo italiano di aver violato l’accordo di non aggressione siglato tre anni fa con la Libia, partecipando ai raid della Nato contro il regime del colonnello. «Noi non avremo più un partenariato con l’Eni e l’Italia non otterrà, per il futuro, nessuna partecipazione nei contratti petroliferi in Libia», ha aggiunto il premier libico, che ha inteso porre l’accento sui 30 miliardi di dollari – a tanto ammontano investimenti dell’Eni nel settore petrolifero in territorio libico – che sarebbero da qui in poi irrimediabilmente compromessi. Uno scenario che già ai tempi delle prime incursioni aeree della Nato su Bengasi era stato prefigurato dal presidente della Fondazione Gaetano Salvemini, Renato d’Andria.

Presidente d’Andria, lei ha sostenuto fin dall’inizio che l’Italia doveva assumere una posizione non interventista. Ma sarebbe stato realisticamente possibile, con le sollevazioni popolari che infiammavano tutta la Libia e le richieste di libertà in arrivo dai “ribelli”?

E' ormai chiaro che le rivolte popolari molto spesso vengono suscitate da reparti mercenari infiltrati su iniziativa di gruppi – o, come in questo caso, potenze straniere – che hanno tutto l’interesse a destabilizzare gli assetti governativi locali. Questo è esattamente ciò che è avvenuto in Libia, ma non solo, anche in Siria e in altri Stati “caldi” del bacino del Mediterraneo.

Il nostro governo ha motivato l’intervento in Libia anche con la posizione geografica del nostro Paese, al centro del Mediterraneo, ma alleato della Nato.

La posizione geografica dell’Italia non è quella di una piattaforma missilistica o aerea al servizio della Nato, ma deve piuttosto suggerire un ruolo centrale, di cardine dei processi di pace e degli scambi socio-economici non solo con la Libia, ma all’interno di tutta l'area.

Però con la partecipazione all’intervento armato in Libia è accaduto esattamente il contrario.

Sì e questo lo si deve a scelte di politica decisamente poco lungimiranti e in ogni caso del tutto subalterne. In sostanza, la nostra partecipazione ha avuto, come da mesi ho scritto e dichiarato, un effetto doppiamente negativo per il nostro Paese: da un lato, abbiamo infranto trattati di amicizia e cooperazione che avevamo costruito attraverso alleanze tradizionali con la Libia; dall’altro abbiamo addirittura favorito un processo di “ricambio”, nel senso che alle imprese italiane potrebbero subentrare nei contratti e nelle partnership quelle francesi o britanniche, vale a dire afferenti a quei Paesi che avevano tutto l’interesse a scalzare le alleanze fra Roma e Tripoli.

Infatti, lo stesso premier Al Baghdadi Ali Al Mahmoudi ha annunciato nei loro confronti una politica meno drastica di quella che si prefigura ora con l’Italia.

Questo scenario era ampiamente prevedibile. Una politica suicida, per giunta in un periodo che è già di pesante recessione.

C’è qualcosa che, a suo giudizio, il nostro Paese potrebbe fare ora, alla luce di quanto sta accadendo?

Certo, l’Italia deve farsi promotrice di un tavolo internazionale di concertazione che spinga per il ritiro della Nato dalla Libia. Al tempo stesso, però, bisogna trattare con il leader libico per ottenere che, in cambio dei nuovi trattati, apra ad una vera riforma del Paese in senso costituzionale, secondo regole attentamente monitorate da organismi indipendenti di vigilanza.

Gheddafi, insomma, dovrebbe promulgare una nuova Costituzione?

Sì, ed aprire a libere elezioni con una autentica partecipazione dei cittadini, per costituire un Parlamento realmente democratico. Sarebbe l’unica salvezza: anche per il regime del rais, ma soprattutto per le sorti delle popolazioni e per il loro futuro. Non ultimo, questa soluzione consentirebbe all’Italia di riassumere e svolgere il suo ruolo centrale, e non al servizio delle potenze straniere e dei loro interessi.

Furio Lo Bello

(Renato d'Andria)

Sito dal quale è stato preso l'articolo: www.fondazionegaetanosalvemini.org

Ultimo aggiornamento Martedì 26 Luglio 2011 11:11

La strage di Oslo e la questione palestinese

L'attentato terroristico nella città di Oslo, rivendicato da siti islamisti, non è quello che può sembrare. Esso infatti va inquadrato su due punti fondamentali: a) il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell'ONU e che Israele e Stati Uniti non vogliono; b) le voci di un attacco israelo-statunitense all'Iran per settembre
L'Europa è l'anello debole in questo gioco a scacchi tra palestinesi e mondo arabo da una parte e Israele e Stati Uniti dall'altra. A qualcuno - Mossad-Cia - serve terrorizzare l'Europa e soprattutto quei paesi che all'ONU potrebbero votare a favore della creazione di uno stato palestinese. La Norvegia è proprio uno di questi paesi. Colpire e minacciare dunque quei paesi europei che ancora sono indecisi e nello stesso tempo mostrare alle opinioni pubbliche occidentali che con il mondo arabo non si può trattare. Una edizione riveduta e adattata della dottrina neocon americana dello scontro di civiltà già vista sotto Bush. Se questa analisi è giusta è probabile allora che anche altri paesi europei saranno presto colpiti dal terrorismo "islamico"
Ma questi atti terroristici servono anche a preparare psicologicamente la gente ad un sempre più probabile attacco all'Iran. Della serie: noi siamo i buoni e loro i cattivi da distruggere... Questa che è iniziata è dunque una vera e propria guerra di propaganda psicologica di massa in cui il terrore terroristico è foriero di ulteriori gravi sviluppi internazionali
Il popolo palestinese ha chiesto al mondo intero di riconoscere lo stato della Palestina. Oltre 120 paesi hanno risposto all'appello, ma gli Stati Uniti e Israele si sono opposti e i leader europei non hanno ancora deciso da che parte stare
UN APPELLO DALLA PALESTINA Fra quattro giorni si riunirà il Consiglio di Sicurezza dell'ONU, e il mondo intero avrà la possibilità di adottare una nuova proposta che potrebbe segnare il cambio di rotta di decenni di negoziati di pace fra israeliani e palestinesi: il riconoscimento da parte dell'ONU dello stato palestinese. Oltre 120 nazioni del Medio Oriente, Africa, Asia e America Latina hanno già dato la loro adesione all'iniziativa, ma il governo di destra in Israele e gli Stati Uniti sono fortemente contrari. L'Italia e altri paesi chiave dell'Europa sono ancora indecisi, e un'enorme pressione da parte dell'opinione pubblica potrebbe convincerli a votare in favore di questa opportunità per mettere fine all'occupazione. I negoziati di pace guidati dagli Stati Uniti, che vanno avanti ormai da decenni, hanno fallito, mentre Israele ha imprigionato il popolo palestinese, confiscato le sue terre e bloccato la Palestina dal diventare un'entità politica sovrana. Questa nuova coraggiosa iniziativa potrebbe liberare il popolo palestinese dalla prigionia, ma perché ciò avvenga l'Europa deve guidare l'operazione. Costruiamo una chiamata globale enorme rivolta all'Italia e ad altri leader europei per dichiarare il nuovo stato ora, e facciamo sì che il sostegno dei cittadini di tutto il mondo a questa proposta legittima, nonviolenta e diplomatica sia chiaro e forte. Clicca sotto per firmare la petizione e invia questa e-mail a tutti: http://www.avaaz.org/it/independence_for_palestine_eu/?vl Se tracciare le origini del conflitto israelo-palestinese è complicato, la maggioranza della popolazione da ambedue le parti è invece d'accordo su un punto: il modo migliore per raggiungere la pace ora è la creazione dei due stati. Tuttavia, i diversi negoziati di pace che si sono susseguiti sono stati indeboliti da episodi di violenza da ambedue le parti, i tanti insediamenti israeliani in Cisgiordania e il blocco umanitario di Gaza. L'occupazione di Israele ha ridotto e frammentato il territorio dello stato palestinese e reso la vita di tutti i giorni dei palestinesi un inferno. L'ONU, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno annunciato recentemente che i palestinesi sono pronti per avere uno stato indipendente, ma il più grande ostacolo alla sua riuscita è l'occupazione da parte d'Israele. Persino il Presidente degli Stati Uniti ha chiesto di mettere fine all'espansione dei territori e di ritornare invece ai confini del 1967 con accordi sugli scambi di terra, ma il Primo ministro Netanyahu ha reagito furiosamente: il messaggio di non cooperazione non poteva essere più chiaro di così. E' arrivata l'ora di un cambiamento epocale e di passare da un futile processo di pace a un nuovo cammino verso il progresso. Mentre Isreale e il governo americano dicono che l'iniziativa palestinese è "unilaterale" e pericolosa, in realtà le nazioni di tutto il mondo appoggiano pienamente questa mossa diplomatica che rigetta la violenza. Il riconoscimento globale della Palestina potrebbe isolare gli estremisti e incoraggiare il crescente movimento nonviolento israelo-palestinese in corso insieme al vento pro-democrazia che sta soffiando nella regione. Ma più importante ancora, potrebbe salvare il cammino verso un negoziato sugli insediamenti, permettere ai palestinesi l'accesso a una serie di istituzioni internazionali che potrebbero aiutarli a raggiungere la libertà, e inviare un chiaro messaggio al governo in favore dell'occupazione dei territori che il mondo non è più disposto ad accettare l'impunità e l'intransigenza. Per troppo a lungo ormai Israele ha messo a repentaglio la speranza della nascita dello stato palestinese. Per troppo a lungo gli Stati Uniti sono stati accondiscendenti e per troppo a lungo l'Europa si è nascosta dietro gli Stati Uniti. Ora Italia, Francia, Spagna, Germania, Regno Unito e l'Alto Rappresentante dell'Ue non hanno ancora deciso da che parte stare sulla costruzione dello stato palestinese. Appelliamoci a loro perché si mettano dalla parte giusta della storia e perché sostengano la dichiarazione della Palestina per la libertà e l'indipendenza, attraverso un forte sostegno e con il necessario aiuto economico. Firma ora la petizione urgente per chiedere all'Europa di sostenere l'iniziativa e appoggia questo passo decisivo per una pace di lungo termine fra Israele e Palestina: http://www.avaaz.org/it/independence_for_palestine_eu/?vl La costruzione dello stato palestinese non risolverà questo lungo conflitto di punto in bianco, ma il riconoscimento dell'ONU cambierà tutto e aprirà le porte alla libertà e alla pace. In tutta la Palestina il popolo si sta preparando con molte aspettative e speranze per riprendersi la libertà che questa generazione non ha mai conosciuto. Mettiamoci dalla sua parte e facciamo pressione sull'Europa perché faccia lo stesso, così com'è avvenuto quando ha sostenuto il popolo egiziano, siriano e libico. Con speranza e determinazione, Alice, Ricken, Stephanie, Morgan, Pascal, Rewan e il resto del team di Avaaz

Vai al sito dell'articolo http://www.genesijournal.org/renatodandriait/2008/Gennaio/index.php

di
Claudio Prandini

(Renato d'Andria)