martedì 27 settembre 2011

ESPERTI AL CONFRONTO PER UN PROCESSO DI PACIFICAZIONE NAZIONALE (Renato d'Andria)

Si è svolto oggi, mercoledì 21 settembre 2011, il convegno nazionale, promosso dalla Fondazione Gaetano Salvemini, dal titolo “Dalla Pax Togliattiana alla Pax Berlusconiana”.

Nella Sala Capranichetta dell’Hotel Nazionale in Roma, dall’acuta e realistica introduzione del presidente della Fondazione Renato D’Andria e dall’abile ed agile moderazione del direttore de Il Tempo, Mario Sechi, si apre la stagione politica autunnale, attraverso un confronto aperto fra parlamentari, giuristi e giornalisti, sulla condizione non solo politica in cui l’Italia versa da tempo.

Una manifestazione dal senso particolare, promossa dall’interesse a far sì che molte menti e molte persone che hanno a cuore le sorti dell’Italia e, in particolare, del Mezzogiorno, negli ultimi anni molto trascurato, possano unirsi per realizzare iniziative volte al bene del Paese” è questo l’incipit del presidente Renato D’Andria che riconosce all’Italia una condizione di autentica guerra fra gruppi di potere contrapposti. Una guerra che ha minato le sorti economiche e sociali del Paese negli ultimi vent’anni “in cui le lobby giocano dietro le quinte a discapito degli italiani, e noi ci teniamo a che questo non avvenga” trovando “una strada per una pacificazione nazionale che già ha avuto in passato delle opportunità che si sono verificate anche in anni lontani, non ultima quella togliattiana. Il popolo non può sopportare situazioni abnormi, le lobby non possono giocare sulla vita degli italiani, bisogna trovare velocemente una soluzione democratica, giusta, eguale e fare in modo che tutto venga a riportarsi nel suo alveo”. Non a “salvacondotti” o “exit strategy”, dunque, ma riferimento a modelli storici epocali, come la Pax Augustea e la Pax Togliattiana.

La figura di Gaetano Salvemini resta ben impressa nelle menti dei presenti con le parole di Elio Veltri (Democrazia e Legalità) che, nel discorrere sulle qualità dell’economista nonché grande politico italiano, ricorda alla platea la celebre citazione “Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere”. (Renato d'Andria)

Dall’idea di una politica proba e intellettualmente onesta, secondo cui “l’ umiltà è la via maestra per la tolleranza e la libertà” lanciata da Veltri, si sono susseguite notevoli riflessioni sulla condizione del Paese, da cui è scaturito un fervente dibattito sui valori e sulledinamiche della politica odierna.

Sostanziale conferma alla diagnosi del presidente D’Andria arriva dalle parole del costituzionalista Michele Ainis (Università Roma Tre), che descrive l’Italia come un “paese disunito, frastagliato, in una guerra civile silenziosa”. Per due ragioni, perché “questo Paese è frastagliato in lobby, corporazioni, caste che sono l’una contro l’altra” e perché “si è aperta una frattura tra la società politica e la società civile”, dovute soprattutto al potere delle corporazioni, l’immobilità sociale, principalmente intergenerazionale in cui “i parenti sono più importanti dei talenti”, una scarsa libertà economica e un indice di competitività basso. Una crisi che non è solo etica e di legalità ma anche di eguaglianza e di efficienza. Quale la cura? Un meccanismo che possa rendere vincolante una qualche rotazione delle cariche, non solo politiche, ma anche dirigenziali e che coniughi all’esercizio del potere la responsabilità del rendere conto del proprio operato.

Secondo Oliviero Beha (Rai) ci troviamo nelle condizioni di una “pace incivile”, di “democrazia sfatta che si chiama ancora democrazia”, inoltre, “la rievocazione della pax togliattiana ha una sua dimensione spazio temporale che non può essere riproposta oggi, poiché le ragioni del suo essere sono polverizzate in questa organizzazione sociale”. (Renato d'Andria)

Per Filippo Facci (Libero) il problema reale è che non succede nulla di concreto per l’abbattimento della attuale condizione politica da parte della società civile. “Il naufragio della politica odierno è avvenuto in totale assenza di tensione, la pace incivile è pericolosa perché si traduce da una parte nella disaffezione e nella narcotizzazione della società civile, dall’altra nella esistenza di una politica che non è politica, da far sparire”. Tale condizione genera effetti a medio lungo termine di cui ora non abbiamo sentore, ma che saranno dannosi per la nazione.

Il punto di vista del senatore Elio Lannutti (Idv) si esprime in una esigenza di recupero degli ideali e delle condizioni che riportino i rappresentanti politici al loro compito originario, il mettersi a servizio del popolo. “Il politico non deve avere i paraocchi, deve avere una visione, che non c’è più. Altrimenti saremo sempre sotto ricatto delle oligarchie che dal 7 luglio 2007 hanno distrutto 40 milioni di posti di lavoro, ci vuole un nuovo coraggio al di là di destra, sinistra o centro. Solo così avremo una speranza per i nostri giovani”.

Sergio D’Elia (Nessuno Tocchi Caino), invece, parla di “un regime che dura da 60 anni. Berlusconi non è altro che un prodotto dei due trentenni precedenti” pertanto “va voltata pagina” rispetto ad un passato. Va risolta, poi, necessariamente, la questione della giustizia. Una questione istituzionale e sociale. “Il nostro Paese viene condannato mille volte dalla giustizia europea per come si comporta nei tribunali e nelle carceri. Il Consiglio d’Europa considera il nostro Paese, per la non amministrazione della giustizia, come un Paese non libero. La proposta di amnistia di Pannella è un atto di buon governo per tentare di ripristinare le regole democratiche del nostro paese”. (Renato d'Andria)

Roberto Giovannini (La Stampa) denuncia la mancanza di consapevolezza delle condizioni reali del Paese. “Non ci si rende conto di qual è la realtà, sul fronte del lavoro, sul fronte dell’economia, non si parla della condizione delle persone. Avete fatto caso che ogni giorno apre un “Pronto Oro”, che si comprano meno pacchetti di sigarette e più di tabacco? Secondo Confcommercio negli ultimi 40 anni la spesa di consumo è raddoppiata fino al 42%, la quota di consumi liberi diminuita dal 77% al 60%. Un giovane su tre non ha lavoro e forse non lo troverà. Milioni di persone non hanno un futuro programmabile. Il Ministro Sacconi ha detto che se non sei sicuro di poter licenziare, non puoi assumere. Viene meno la vaga speranza di trovare qualcosa che vada oltre i tre mesi”. A tale condizione, il giornalista propone unapacificazione economica che dia stabilità, reddito, consumi, vita migliore.

Giuseppe Fortunato (Autorità Garante per la Privacy), nell’operare una sintesi delle varie posizioni degli intervenuti al dibattito, richiama l’attenzione sull’importanza della politica in quanto cosa bella. “Stiamo affrontando una grande questione politica. Il nodo di fondo è che è andato crescendo e sviluppandosi un modello di rapporti che potremmo definire capo-partitocrazia. Una polemica vecchissima. Abbiamo costruito un sistema in cui anche i partiti si sono svuotati. Viviamo in un clima in cui ci sono gli assedianti e gli assediati”.L’elettore non è più soddisfatto e si è rotto il rapporto tra cittadino, classe politica ed istituzioni. “La domanda impegnativa su cui dobbiamo concentrare l’attenzione è la via d’uscita. Con un approccio vincente che non sia sfiduciato, speranzoso o appellante. La soluzione non può essere relegata alla transazione con la classe politica. È necessario che ci sia un interventismo pacifico, la società deve esprimersi. Non è il momento di affrontare soltanto le piccole emergenze, ma il momento che i cittadini tutti uniti dicano le stesse cose che la classe politica dice, mette nei programmi ma ancora ha da realizzare”.

Il Vice Presidente alla Camera Rocco Buttiglione (Udc) chiude la giornata di lavoro con degli interrogativi sulla questione democratica Perché i partiti italiani sono senza democrazia? Perché in Italia i canali della comunicazione politica sono intasati? La costituzione italiana prevede che i partiti devono essere democratici e che lo Stato può fare una legge per garantire la democrazia interna dei partiti. Però non l’abbiamo fatta perché in Italia ci sarebbe stata una guerra civile”. Secondo l’ Onorevole è venuta meno la questione ideale: “la politica è corrotta ma anche la società non sta molto meglio. Quanta gente vota perché gli è stato fatto un favore. Si è corrotto anche il corpo elettorale. Bisogna ricostruire. La politica è responsabilità, perché si decide della vita degli altri”.

Si conclude con un lungo dibattito con la platea questo primo passo verso la ricostruzione di un dialogo costante con la società civile, dove il movimento, il dialogo con il popolo potranno alimentare la partecipazione e il cammino verso una società italiana ricca, collegata, in una parola, migliore. (Renato d'Andria)

martedì 13 settembre 2011

STUDIO SULLA SOCIALDEMOCRAZIA OGGI (Jonathan Curci, Renato d'Andria)


Prefazione:



Da poco Renato d’Andria ha ripreso la leadership del partito socialdemocratico italiano. In questo scritto sviluppo alcune riflessioni sull’attualità del concetto politico di socialdemocrazia, con l’auspicio che esse possano risultare utili all’impegno di Renato d’Andria teso a fare di questo partito una forza di speranza e di rinnovamento per la politica italiana.


Articolo:

Il concetto di “socialdemocrazia” è stato di grande rilevanza nel secolo passato ed è perciò opportuno chiedersi come si collochi nella situazione politica attuale del nostro paese.
Nel contesto europeo, spesso sin dalla fine dell’800 la socialdemocrazia era schierata in un insieme di movimenti politici contrapposti al cosiddetto “liberalismo” o al cosiddetto “capitalismo”. Ma le diverse ramificazioni socialiste, fino agli effetti del socialismo più spinto, il “comunismo”, con le sue determinanti limitazioni alla libertà individuali, hanno ridisegnato le funzioni della socialdemocrazia. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
Tanto che oggi, in tempo di vincente bipolarismo preso in prestito dal mondo anglosassone, la socialdemocrazia si potrebbe inserire sia nel centro destra che nel centrosinistra. In realtà essa ancora una volta funge da collante sociale sulle rive contrapposte.


La storia della socialdemocrazia

La storia delle idee della socialdemocrazia si può ripercorrere dalla spiegazione in Wikipedia, che sembra esauriente: “Il socialismo è un ampio complesso di ideologie, orientamenti politici, movimenti e dottrine che tendono a una trasformazione della società in direzione dell'uguaglianza di tutti i cittadini sul piano economico e sociale, oltre che giuridico. Si può definire come economia che rispecchia il significato di "sociale", che pensa a tutta la popolazione. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
Si definisce socialdemocrazia quell'insieme di movimenti socialisti che accettano il concetto di economia di mercato, di proprietà privata e il muoversi all'interno delle istituzioni liberali.
La socialdemocrazia si pone tra il socialismo marxista e il riformismo borghese. Essa infatti, in un primo tempo, pur ponendosi in prospettiva critica nei confronti del capitalismo, non ritenne ancora tempo per una sua totale abolizione. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
Il ruolo che si assicurarono i partiti socialdemocratici nei decenni tra il XIX e XX secolo fu quello di lottare sia contro il riformismo borghese, che avrebbe portato la classe operaia a legarsi troppo al sistema capitalistico, che contro l'avventurismo rivoluzionario marxista, che avrebbe portato a scontrarsi con le strutture ancora solide del sistema. La socialdemocrazia non tende a farsi garante della sopravvivenza del sistema, ma vuole lavorare al suo interno per portare uno spirito di rinnovamento e di trasformazione costante.
Le evoluzioni successive portano la socialdemocrazia a farsi portatrice del compromesso tra il riformismo liberale dei borghesi e i principi più importanti della dottrina socialista riformista: durante gli anni tra i due conflitti mondiali, con la proposizione di due modelli forti come quello sovietico e quello fascista, i socialdemocratici rappresentarono l'alternativa democratica e riformista. Socialdemocrazia e comunismo giunsero spesso allo scontro frontale, in cui i socialdemocratici vennero trattati da "socialtraditori" o "socialfascisti", per ritrovare successivamente un progetto comune contro il regime fascista e nazista. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
Nel secondo dopoguerra, la socialdemocrazia riassume in occidente un ruolo importante tra le forze politiche dominanti nonché il naturale approdo per tutti i socialisti riformisti e i democratici progressisti, essa fu inoltre capace di proporre significative trasformazioni, come la nazionalizzazione di alcuni settori produttivi, l'instaurazione di un'economia mista e il raggiungimento di forme di sicurezza sociale per i lavoratori.
Le socialdemocrazie contemporanee sono partiti politici che hanno abbandonato l'idea della divisione della società in classi contrapposte e ogni progetto di stampo ottocentesco; del vecchio modello rimane solo la prospettiva internazionalista che ribadisce il principio di un'azione comune tra tutte le forze socialiste, socialdemocratiche o genericamente riformiste dei singoli Paesi, nel rispetto delle diverse storie nazionali, delle diverse situazioni economiche e della pluralità delle tradizioni culturali e ideologiche. In molti casi inoltre, anche significative componenti del mondo cattolico-sociale e riformista hanno trovato nella socialdemocrazia un ottimo approdo.” (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)

La socialdemocrazia oggi

Partendo da queste idee comuni e generali sulla socialdemocrazia ci spingiamo a dare uno sguardo al futuro sul posizionamento e sull’identità della socialdemocrazia rispetto alle sfide che affronta l’Italia.
Da un lato possiamo dire che l’attacco velleitario del movimento comunista ha posto alcuni compromessi che sono a base del debito pubblico e della larga spesa statale, che è in generale il vero problema di una società moderna al di là dei regimi comunisti. Nel contesto italiano, le concessioni assistenziali hanno spesso frenato gli attacchi rivoluzionari che ispiravano le classi proletarie.
Possiamo dire che la socialdemocrazia è stato il vero mare che normalmente si frapporne fra il dire e il fare.
Il dire è rappresentato dalle ideologie forti e cioè il liberalismo che si poggia sulla responsabilità personale e il socialismo che pone la società al centro di ogni iniziativa.
Senza la socialdemocrazia, per esempio in Italia, non avremmo avuto i governi di pentapartito durante la parte preponderante della prima repubblica dopo la guerra mondiale.
Saragat è sicuramente stato, con Ugo La Malfa, uno dei principali artefici del pragmatismo italiano, della confluenza liberale in una società molto votata al proletariato, in un ambiente in cui c’era un forte partito Democristiano, vista l’influenza del cattolicesimo e dello Stato del Vaticano in Italia.
Oggi la domanda vera è come affrontare gli esiti di questo compromesso, anche alla luce della stretta economica derivante dall’ammontare del debito pubblico. Per fare un esempio, autorevoli commentatori giudicano l’ultima manovra di Tremonti una riforma di stampo socialista. Un grande debito pubblico blocca costantemente ogni possibilità di investire nella crescita. Certamente il sistema assistenziale italiano è stato la causa del debito: molti dipendenti pubblici, molto welfare. Se si vuole continuare sulla stessa scia, tutto questo farà regredire il paese e creerà una mentalità stagnante, decisamente poco creativa.
Il tipo di società socialdemocratica da un lato pone la creatività individuale come priorità e, dall’altro, permette allo Stato di spendere solo se ci sono i mezzi e se c’è un costante controllo del singolo sull’operato pubblico. Credo che ancora una volta la Socialdemocrazia oggi può essere di grande aiuto, soprattutto nella gradualità degli interventi da mettere in campo nel cammino verso una società realmente liberale. Occorre ancora una volta uno slancio non fanatico ma pragmatico. L’obiettivo non è più contrapporsi al fanatismo comunista: occorre invece favorire l’imprenditorialità diffusa, attuare l’attesa sburocratizzazione, ridurre il carico fiscale su famiglie ed imprese, in aggiunta ad altre iniziative consentano il volontario apporto al bene comune, dopo che ciascuno avrà individuato il proprio ambito di produttività.
Diciamo che ancora una volta la socialdemocrazia, giusto compromesso sociale, ci può venire in aiuto.
Oggi il rilancio della socialdemocrazia, a mio giudizio, deve avvenire unitamente al rilancio del liberalismo. In sintesi, deve essere chiaro che la socialdemocrazia è un insieme di idee per creare strumenti sociali al fine di consentire la maggiore liberalizzazione dei singoli, affinché diventino imprenditori in meno tempo e con meno spese e burocrazia. Si deve promuovere un’imprenditoria diffusa, anche nel lavoro dipendente, in cui si mettano in gioco non solo le proprie risorse economiche, ma anche i propri talenti e studi, che rappresentano nell’epoca del terziario un grande capitale.
La socialdemocrazia, in quest’ ottica, può sanare le forme di egoismo, consentendo allo Stato di compiere veramente la sua funzione di controllo delle frodi e dei soprusi: uno stato “gendarme” che compia con onore il compito di porre le basi di diritto nei rapporti dei consociati, mettendoli nell’uguaglianza delle opportunità, pur riconoscendo le peculiarità di ognuno.


Proposte per il futuro

Ormai nelle società moderne l’esigenza della governabilità induce a scegliere un campo di azione politica più ampio del particolare movimento a cui noi ci sentiamo legati.
Il principio della tendenza, del minimo comune denominatore, del meno peggio e di ciò che più si avvicina al nostro ideale, sembrano essere gli elementi utili all’azione politica.
A mio avviso la socialdemocrazia deve essere più prossima alle tendenze liberali, che privilegiano la difesa dell’individuo, dei suoi diritti e l’esame semplice dei suoi doveri.
Dico questo perché è chiaro che le opposte tendenze, in regime di maggioritario e di alternanza, non possono che essere poste sui capisaldi appunto dell’individuo o della società, uno induttivo, l’altro deduttivo.
La mia opinione è che partendo dal singolo restiamo più vicino alle esigenze dell’uomo e comprendiamo meglio il suo sviluppo in agglomerati fondamentali come la famiglia, i gruppi religiosi e poi le postazioni politiche sempre più grandi, dal quartiere, al comune, alla regione, allo Stato e alle consociazioni federali e superstatali.
Si arriva quindi al cosmopolitismo e al ritorno all’identità umana che ci accomuna tutti.
Se invece si parte dalla società, è più facile perdere di vista le esigenze differenziate della singola persona, ci si impatta sulle necessità generali, e proprio per questo il fanatismo comunista e nazista o fascista sono arrivati a dimenticarsi del singolo, sacrificato a motivazioni sociali che poi non sono altro che quelle del dittatore o dell’oligarchia di turno.
Allora, in considerazione di queste premesse, suggerisco che la fusione politica tra il liberalismo e la socialdemocrazia può determinare un unicum capace di comprendere al suo interno differenze anche notevoli, fra chi difende l’individualismo e chi più si impegna nell’associazionismo.
E’ certo che i sistemi proporzionali creano molti partiti con volontà uniforme, che mai lo sono veramente, e che comunque creano nella pratica l’ingovernabilità.
Io sarei per un sistema maggioritario secco, per le primarie, e per la minore spesa possibile della politica che grava sulla società.
Credo che la politica debba occuparsi degli elementi necessari alla coesione sociale e al controllo di legalità, ma che ogni altra funzione debba essere lasciata ai privati e all’imprenditoria diffusa, con una tassazione semplificata che determini il contrasto di interessi tra chi fornisce e chi riceve il servizio.
In tal modo la sburocratizzazione della società può essere garantita, pur salvaguardando il controllo di legalità, fondamentale per il buon vivere sociale e per la libera espressione dei produttori.
In una società in cui prima di occuparmi di cosa voglio fare o cosa voglio produrre, io devo preoccuparmi di quale prassi debba seguire o di quante tasse debba pagare, alla fine la volontà di intraprendere risulta depressa. Possiamo quindi considerare fondamentale per il futuro quella tendenza politica che, pur difendendo il controllo di legalità, consenta ai singoli di intraprendere in libertà, focalizzando il beneficio per tutti del proprio operato, con il rispetto della legge della concorrenza, la sola capace di scegliere i migliori.
La socialdemocrazia in quest’ottica può apportare il necessario miglioramento alla vita sociale di ogni paese.
(Roma 26 Luglio 2011)


Jonathan Curci

L'AUTORITÀ NAZIONALE PALESTINESE TRA LA MORSA DEI “PALESTINE PAPERS” E LA RICERCA DEL CONSENSO INTERNAZIONALE PER LA CREAZIONE UNILATERALE DI UNO STAT

Prefazione:

di Raffaele Petroni Luglio 2011 tratto da http://www.argoriente.it/arc/paesi/palestina/palestine-ots-palestine-papers-IT.pdf

Articolo:

L'Autorità Nazionale Palestinese (ANP) da diversi mesi affronta una grave crisi interna, sia politica sia sociale, dapprima strisciante ma in seguito sempre più aperta. Questa instabilità pone seri quesiti in merito al suo futuro e mette a repentaglio la sua sopravvivenza e la sua credibilità politica all'interno dei propri confini e all'estero. Soprattutto, però, la espone al rischio di perdere in maniera sostanziale il contatto con le masse popolari e la loro fiducia: si crea quindi uno scollamento difficile da colmare tra la popolazione e la sua classe politica. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
La crisi aperta è iniziata in tutta la sua complessità con la diffusione di cablo diplomatici statunitensi riservati, dalla fine di novembre 2010 e tramite il portale Wikileaks, e si è aggravata ulteriormente con la pubblicazione del dossier Palestine Papers, contenente documenti ufficiali palestinesi, da parte dall'emittente Al Jazeera (in collaborazione con il quotidiano britannico The Guardian), dalla fine di gennaio 2011. La rivelazione di documenti di questo genere ha indotto la popolazione palestinese (residente sia nei Territori che in Israele e all'estero) a concentrare la sua attenzione, ancor più del solito, su ciò che nella politica, nel processo di pace e negli affari internazionali mediorientali avviene “off the record”.
Il dossier Palestine Papers è composto da un insieme di documenti ufficiali, email, meeting reports, appunti, mappe e tanto altro che ANP, Israele e Stati Uniti si sono scambiati nel corso dell'ultimo decennio. I contenuti considerati più compromettenti, e che più hanno spinto i palestinesi a sentirsi “traditi”, riguardano sia le proposte avanzate dall'ANP a Israele per la divisione di Gerusalemme nel quadro di un accordo finale (considerate però dal mondo arabo-palestinese più intransigente una “concessione” impropria, illegittima e sprezzante dei diritti, della cultura e della storia palestinese), sia la proposta per la risoluzione del problema dei rifugiati tramite l'accettazione di un ridimensionamento del “diritto al ritorno”, rompendo quindi con la politica palestinese, cristallizzatasi e rafforzatasi nel corso degli ultimi sessant'anni, di non scendere mai a “compromessi” su questo principio. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
La pubblicazione di questi documenti è molto più difficile da gestire politicamente rispetto alle rivelazioni trapelate precedentemente tramite il portale Wikileaks poiché, mentre per queste ultime si può sostenere che rappresentano il punto di vista “soggettivo” di alcuni diplomatici americani (riflessioni confidenziali inviate via cablo al Dipartimento di Stato a Washington), il materiale relativo ai Palestinian Papers è costituito da atti e proposte delle autorità coinvolte nei negoziati e quindi è da considerare “ufficiale”. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
Le notizie si sono diffuse rapidamente tra la popolazione; Abu Mazen (presidente dell'ANP) e Saeb Erekat (capo negoziatore dell'ANP fino a poco prima che lo scandalo scoppiasse nella sua interezza) sono i principali individui messi “sotto accusa” e chiamati a render conto politicamente del contenuto dei documenti venuti alla luce. Nonostante i loro collaboratori si siano affrettati a smentire inizialmente le rivelazioni definendole ingannevoli, i loro sforzi non sono riusciti a calmare gli animi e alla fine Erekat ha dovuto rassegnare le proprie dimissioni a seguito della scoperta che la fonte tramite cui i documenti sono stati rivelati alla stampa si trovava proprio nel suo ufficio, confermando di fatto le rivelazioni rese pubbliche . In seguito, anche il primo ministro Fayyad ha annunciato le sue dimissioni, ma queste sono state respinte da Abu Mazen, che ha anzi conferito allo stesso Fayyad il compito di formare un governo di unità nazionale, richiesto a gran voce anche dalla piazza. Le rivelazioni di Wikileaks relative alla conoscenza da parte dell'ANP dell'operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza del dicembre 2008 e gennaio 2009 (“Piombo Fuso”) avevano già scosso larga parte della popolazione palestinese residente a Gaza, in Cisgiordania e in Israele, e aveva indotto molti a definire Abu Mazen e Saeb Erekat “complici dei crimini” israeliani (rivelazione smentita categoricamente dai maggiori esponenti palestinesi)5. I documenti resi noti da Al Jazeera hanno portato a una vera e propria rivolta verbale, nonché a una campagna di discredito, guidata da Hamas, a danno dei dirigenti di Fatah6. A seguito delle dimissioni di Erekat e della conseguente necessità di procedere a una riorganizzazione sia dell'ANP che del partito Fatah, Abu Mazen ha indetto nuove elezioni7, esponendo l'assetto politico palestinese a una fase d’incertezza politica e sociale, caratterizzata dall'aumento delle distanze tra la popolazione e la classe politica8. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
In questo quadro, il sostegno e il supporto morale e politico che gran parte della popolazione palestinese residente nei Territori ha mostrato verso le agitazioni popolari che hanno scosso inizialmente la Tunisia, l'Algeria e l'Egitto, e successivamente anche lo Yemen, la Libia, il Bahrein, la Giordania, la Siria e in parte l'Iran, ha complicato la posizione dei vertici dell'ANP, facendoli diventare bersaglio delle richieste provenienti dal basso di un cambiamento socio-politico nei Territori9.
Gli sconvolgimenti che dalla metà di gennaio interessano il Medio Oriente e il Nord-Africa stanno inducendo molti, dentro e fuori queste regioni, a studiare più attentamente il legame tra mass-media, rivendicazioni socio-economiche e governi. Il diritto all'informazione nel mondo arabo è sempre stato interpretato in un'ottica riduttiva, assoggettandolo alle necessità e agli interessi dei regimi in carica. Non stupisce, quindi, che da più parti ci si sia chiesti quale progetto politico abbiano realmente Wikileaks e Al-Jazeera10, e che molti governi regionali li abbiano accusati di voler fomentare sommosse popolari e di voler agire contro la pace sociale nella regione. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
Le critiche ai portali si sarebbero potute attenuare solo nel caso (improbabile) in cui le loro rivelazioni avessero provocato un rafforzamento e una saldatura più forte (difficile da verificarsi nella maggior parte dei casi) tra i regimi e le masse popolari. Alla luce delle ripercussioni per l'ANP, un atteggiamento critico verso i network informativi è stato tenuto anche da alcuni esponenti di spicco all'interno dei Territori palestinesi, in particolare da Saeb Erekat, protagonista degli scandali politici locali11.
Come già mostrato in passato da Arafat in situazioni analoghe, anche l'amministrazione dell'ANP diretta da Abu Mazen non sembra avere come priorità nella propria agenda la risoluzione dei problemi interni tramite il varo di un piano strutturale che affronti le criticità economiche e sociali presenti nei Territori palestinesi, ma quella della sopravvivenza politica, sfruttando la carta dell'ostilità verso le politiche israeliane per aumentare il consenso. Questo modo di agire non ha mai pagato nel lungo termine in passato, e difficilmente lo farà nel presente. Di questo sono ben consci anche gli esponenti di Fatah, ma è la sola carta che in questo momento di “campagna elettorale” informale ritengono di avere a disposizione per scongiurare un risultato negativo analogo a quello del gennaio 2006, in cui Hamas ha ottenuto percentuali schiaccianti di voti anche a Gerusalemme Est. Per l'ANP è iniziata una crisi politica interna e internazionale senza precedenti e le cui ripercussioni dureranno nel tempo.
Alle difficoltà attuali di Fatah si aggiungono, anche se meno plateali, quelle di Hamas, la cui popolarità a Gaza è decisamente in calo dati i problemi economici che la Striscia affronta e la sfida politica lanciata dai gruppi salafiti, che sta portando in alcuni casi il Movimento Islamico a perdere il controllo della sicurezza interna12. Ciò configura quindi una situazione di stallo e d’instabilità per i due maggiori partiti palestinesi, aprendo la strada a eventuali programmi alternativi presentati da nuovi soggetti politici fino ad ora messi un po' in disparte, quali ad esempio quelli di una “Terza Via” prospettata dal partito Iniziativa Nazionale Palestinese guidato da Mustafà Barghouti e Hanan Ashrawi e al quale lo stesso Fayyad è in qualche modo legato. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
L'ANP, e con essa Fatah, ha quindi la necessità, ma soprattutto l'urgenza politica di dare un segnale forte per riguadagnare terreno, credibilità, consensi e legittimità presso la propria popolazione. La via che sta attuando per ottenere questi obiettivi comprende: 1) la “pacificazione” interna con Hamas (mossa fortemente criticata da Israele, che la giudica una prova del rifiuto palestinese a giungere a un accordo di pace13), avviata ufficialmente alla fine di maggio con la mediazione del nuovo regime egiziano, con un accordo di massima per la creazione di un governo di unità nazionale, non ancora concretizzatasi per i contrasti sulla scelta del primo ministro, dato che il Movimento Islamico si oppone alla conferma di Fayyad; 2) l'intransigenza diplomatica nei confronti d'Israele, dimostrata principalmente dal rifiuto categorico di tornare al tavolo delle trattative senza un nuovo congelamento da parte del governo di Gerusalemme della costruzione degli “insediamenti”14; 3) il tentativo di ottenere una condanna ufficiale della politica di Israele tramite una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite15; 4) il tentativo di raccogliere il consenso internazionale necessario per la creazione di uno Stato proprio in sede ONU, mediante una risoluzione dell'Assemblea Generale approvata con il richiamo alla procedura “Uniting for Peace” in occasione della prossima riunione, prevista nel mese di settembre. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
La procedura “Uniting for Peace” è un procedimento particolare che riguarda il potere d'intervento dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nelle situazioni di rottura della pace: si applica in caso d’incapacità o impossibilità del Consiglio di Sicurezza di superare le impasse createsi e autorizza l'Assemblea a decidere il varo di ogni misura necessaria per il ristabilimento della pace e la fine delle ostilità, compreso lo schieramento di contingenti militari operanti sotto mandato delle Nazioni Unite16. La possibilità di applicare questa procedura al conflitto mediorientale per la creazione “forzata” di uno Stato palestinese, però, è messa fortemente in dubbio dal diritto internazionale e pone a serio repentaglio la sopravvivenza giuridica e politica dell'ANP. Infatti, non solo una risoluzione dell'Assemblea Generale non avrebbe il potere “positivo” di alterare lo status giuridico dei Territori Palestinesi, ma avrebbe anzi l'effetto negativo di rendere vano il processo di pace poiché la scelta palestinese di “imporre” una soluzione al di fuori delle trattative diplomatiche violerebbe l'impegno assunto da Arafat (a nome dell'OLP e dell'ANP) di risolvere ogni questione tramite negoziati17, impegno sancito dagli stessi accordi sottoscritti tra le parti, e cederebbe il fianco a un'eventuale denuncia di violazione dei trattati da parte d'Israele presso le corti di arbitrato internazionale18. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
La via “internazionale” intrapresa dall'ANP è una strada pericolosa, che può far degenerare il già fragile e instabile contesto in una situazione ancor più conflittuale; sia la parte palestinese che quella israeliana nel corso degli ultimi mesi hanno investito tutto il capitale politico internazionale a disposizione nel tentativo di convincere le varie diplomazie ad appoggiare la propria causa in vista della riunione dell'Assemblea Generale di settembre. Le diplomazie internazionali che più hanno tentato di svolgere un ruolo determinante tra le parti, dal canto loro, sono molto indecise sul da farsi. La crisi che il mondo arabo sta affrontando, infatti, ha reso la situazione più complicata da districare perché le platee e le società civili arabe (che percepiscono Israele come un “regime imperialista” alla stessa stregua dei vari dittatori locali) vedranno nel voto di settembre un “segno”, una linea di “demarcazione” tra chi è a favore delle masse locali e chi invece appoggia i “regimi”. Solo buon senso, pragmatismo e la piena presa di coscienza, da parte palestinese, del rischio politico e giuridico che corre, e quindi la scelta di non intraprendere la strada della procedura “Uniting for Peace”, possono consentire di superare l'impasse in cui i negoziati si sono arenati.



Raffaele Petroni

La strage di Oslo e la questione palestinese


Prefazione:

Pubblichiamo una lettura non convenzionale della strage di Oslo, che mette in relazione i sanguinosi attentati con gli imminenti negoziati per la cessazione della guerra israelo-palestinese. Ed un'Europa in bilico sulla posizione da assumere.

Articolo:

L'attentato terroristico nella città di Oslo, rivendicato da siti islamisti, non è quello che può sembrare. Esso infatti va inquadrato su due punti fondamentali: a) il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell'ONU e che Israele e Stati Uniti non vogliono; b) le voci di un attacco israelo-statunitense all'Iran per settembre.
L'Europa è l'anello debole in questo gioco a scacchi tra palestinesi e mondo arabo da una parte e Israele e Stati Uniti dall'altra. A qualcuno - Mossad-Cia - serve terrorizzare l'Europa e soprattutto quei paesi che all'ONU potrebbero votare a favore della creazione di uno stato palestinese. La Norvegia è proprio uno di questi paesi. Colpire e minacciare dunque quei paesi europei che ancora sono indecisi e nello stesso tempo mostrare alle opinioni pubbliche occidentali che con il mondo arabo non si può trattare. Una edizione riveduta e adattata della dottrina neocon americana dello scontro di civiltà già vista sotto Bush. Se questa analisi è giusta è probabile allora che anche altri paesi europei saranno presto colpiti dal terrorismo "islamico". (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
Ma questi atti terroristici servono anche a preparare psicologicamente la gente ad un sempre più probabile attacco all'Iran. Della serie: noi siamo i buoni e loro i cattivi da distruggere... Questa che è iniziata è dunque una vera e propria guerra di propaganda psicologica di massa in cui il terrore terroristico è foriero di ulteriori gravi sviluppi internazionali.
Il popolo palestinese ha chiesto al mondo intero di riconoscere lo stato della Palestina. Oltre 120 paesi hanno risposto all'appello, ma gli Stati Uniti e Israele si sono opposti e i leader europei non hanno ancora deciso da che parte stare. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
UN APPELLO DALLA PALESTINA Fra quattro giorni si riunirà il Consiglio di Sicurezza dell'ONU, e il mondo intero avrà la possibilità di adottare una nuova proposta che potrebbe segnare il cambio di rotta di decenni di negoziati di pace fra israeliani e palestinesi: il riconoscimento da parte dell'ONU dello stato palestinese.

Oltre 120 nazioni del Medio Oriente, Africa, Asia e America Latina hanno già dato la loro adesione all'iniziativa, ma il governo di destra in Israele e gli Stati Uniti sono fortemente contrari. L'Italia e altri paesi chiave dell'Europa sono ancora indecisi, e un'enorme pressione da parte dell'opinione pubblica potrebbe convincerli a votare in favore di questa opportunità per mettere fine all'occupazione. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)

I negoziati di pace guidati dagli Stati Uniti, che vanno avanti ormai da decenni, hanno fallito, mentre Israele ha imprigionato il popolo palestinese, confiscato le sue terre e bloccato la Palestina dal diventare un'entità politica sovrana. Questa nuova coraggiosa iniziativa potrebbe liberare il popolo palestinese dalla prigionia, ma perché ciò avvenga l'Europa deve guidare l'operazione. Costruiamo una chiamata globale enorme rivolta all'Italia e ad altri leader europei per dichiarare il nuovo stato ora, e facciamo sì che il sostegno dei cittadini di tutto il mondo a questa proposta legittima, nonviolenta e diplomatica sia chiaro e forte. Clicca sotto per firmare la petizione e invia questa e-mail a tutti:

http://www.avaaz.org/it/independence_for_palestine_eu/?vl

Se tracciare le origini del conflitto israelo-palestinese è complicato, la maggioranza della popolazione da ambedue le parti è invece d'accordo su un punto: il modo migliore per raggiungere la pace ora è la creazione dei due stati. Tuttavia, i diversi negoziati di pace che si sono susseguiti sono stati indeboliti da episodi di violenza da ambedue le parti, i tanti insediamenti israeliani in Cisgiordania e il blocco umanitario di Gaza. L'occupazione di Israele ha ridotto e frammentato il territorio dello stato palestinese e reso la vita di tutti i giorni dei palestinesi un inferno. L'ONU, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno annunciato recentemente che i palestinesi sono pronti per avere uno stato indipendente, ma il più grande ostacolo alla sua riuscita è l'occupazione da parte d'Israele. Persino il Presidente degli Stati Uniti ha chiesto di mettere fine all'espansione dei territori e di ritornare invece ai confini del 1967 con accordi sugli scambi di terra, ma il Primo ministro Netanyahu ha reagito furiosamente: il messaggio di non cooperazione non poteva essere più chiaro di così. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)

E' arrivata l'ora di un cambiamento epocale e di passare da un futile processo di pace a un nuovo cammino verso il progresso. Mentre Isreale e il governo americano dicono che l'iniziativa palestinese è "unilaterale" e pericolosa, in realtà le nazioni di tutto il mondo appoggiano pienamente questa mossa diplomatica che rigetta la violenza. Il riconoscimento globale della Palestina potrebbe isolare gli estremisti e incoraggiare il crescente movimento nonviolento israelo-palestinese in corso insieme al vento pro-democrazia che sta soffiando nella regione. Ma più importante ancora, potrebbe salvare il cammino verso un negoziato sugli insediamenti, permettere ai palestinesi l'accesso a una serie di istituzioni internazionali che potrebbero aiutarli a raggiungere la libertà, e inviare un chiaro messaggio al governo in favore dell'occupazione dei territori che il mondo non è più disposto ad accettare l'impunità e l'intransigenza. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)

Per troppo a lungo ormai Israele ha messo a repentaglio la speranza della nascita dello stato palestinese. Per troppo a lungo gli Stati Uniti sono stati accondiscendenti e per troppo a lungo l'Europa si è nascosta dietro gli Stati Uniti. Ora Italia, Francia, Spagna, Germania, Regno Unito e l'Alto Rappresentante dell'Ue non hanno ancora deciso da che parte stare sulla costruzione dello stato palestinese. Appelliamoci a loro perché si mettano dalla parte giusta della storia e perché sostengano la dichiarazione della Palestina per la libertà e l'indipendenza, attraverso un forte sostegno e con il necessario aiuto economico. Firma ora la petizione urgente per chiedere all'Europa di sostenere l'iniziativa e appoggia questo passo decisivo per una pace di lungo termine fra Israele e Palestina:

http://www.avaaz.org/it/independence_for_palestine_eu/?vl

La costruzione dello stato palestinese non risolverà questo lungo conflitto di punto in bianco, ma il riconoscimento dell'ONU cambierà tutto e aprirà le porte alla libertà e alla pace. In tutta la Palestina il popolo si sta preparando con molte aspettative e speranze per riprendersi la libertà che questa generazione non ha mai conosciuto. Mettiamoci dalla sua parte e facciamo pressione sull'Europa perché faccia lo stesso, così com'è avvenuto quando ha sostenuto il popolo egiziano, siriano e libico. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)

Con speranza e determinazione,

Alice, Ricken, Stephanie, Morgan, Pascal, Rewan e il resto del team di Avaaz




Claudio Prandini