La Rivista "Genesi journal di Renato D'Andria£" ha lo scopo di promuovere lo sviluppo di un dialogo pacifico tra i paesi del mediterraneo.
giovedì 19 maggio 2011
Ora è disponibile per l'acquisto il libro "L'esistenza dello Stato d'Israele, il Medio Oriente e la comunità internazionale - Considerazioni sul conflitto"
Cos’è il conflitto israelo-palestinese?
Perché, dal mondo intero, gli ebrei sono tornati in Israele?
Il Sionismo prevede l’impossibilità della convivenza con gli arabi palestinesi?
Quali sono le ragioni ultime del conflitto tra lo Stato d’Israele e alcuni Stati arabo-musulmani?
Cosa pensare e come operare per realizzare la pace in Medio-Oriente?
In questo libro il Dr. Jonathan Curci e il dott. Raffaele Petroni risponderanno a queste e tante altre domande che riguardano il più grande conflitto politico-religioso di tutti i tempi.
Questo libro esplora le ragioni su cui il popolo ebraico fonda il proprio diritto di esistere sotto forma di Stato indipendente su un piccolo lembo di terra della costa mediorientale del Mar Mediterraneo.
Il testo esplora le relazioni d'Israele con le popolazioni non ebraiche residenti sulla stessa terra. Israele si sente lo Stato piu' minacciato delle Nazioni Unite mentre l'ONU svolge una politica sempre piu' ostile nei confronti dello Stato ebraico.
Il libro propone soluzioni affinche' si conoscano i figli di Abramo e si rispetti il diritto di sovranità nelle terre assegnate ad ogni popolo nel Medio Oriente.
lunedì 16 maggio 2011
Energia nucleare, Medio Oriente e il Mediterraneo
In Italia, la proposta del governo Berlusconi di ritorno alla produzione dell’energia nucleare, pianificando la costruzione di nuove centrali nucleari ha avuto uno stop. Dopo i terremoti in Giappone, con l’inquinamento radioattivo derivante da alcune centrali nucleari che hanno avuto problemi di emissione di radiazioni nucleari, ha generato il movimento per l’organizzazione dei referendum sul tema, che avrebbero dovuto svolgersi nel prossimo mese di giugno.
In realtà il governo italiano ha annullato con nuove norme le precedenti, che erano oggetto dei quesiti referendari, che propugnavano la loro abrogazione, e quindi esprimevano la volontà di non ritornare al nucleare. Per evitare una risposta istintiva dell’elettorato sfavorevole al nucleare, e quindi bloccando una sua ripresa per molti anni, il governo Berlusconi ha deciso di adottare la suddetta strategia, mettendo in stand by la decisione di ritorno al nucleare, al fine di far passare l’elemento istintivo e riprenderne fra un paio di anni l’esame e una probabile decisione favorevole.
Queste problematiche mi hanno suscitato alcune valutazioni su due temi: il primo è l’atteggiamento del mondo in genere verso l’uso dell’energia e il secondo, ad esso correlato, la dipendenza dai paesi arabi, depositari maggiori dei giacimenti di petrolio, col derivante problema dell’instabilità delle relazioni internazionali in Medio Oriente.
Allora l’energia credo che sia il motore dell’umanità. Sin dagli albori della presenza umana sulla terra, il moto e quindi l’ausilio di tecniche per agevolare la produzioni di beni e servizi sono sicuramente stati elementi di ricerca fondamentale per l’uomo.
Il problema basilare è però chiedersi il costo dell’energia sulla stabilità umana, e cioè la produzione della necessaria energia inquina o no l’atmosfera, danneggia o no gli uomini?
E’ certo che tutti vogliamo accendere il computer, avere un frigorifero e illuminarsi di sera. Ma queste comodità spesso vengono rimandate alla responsabilità altrui. Per esempio siamo circondati da più di 20 centrali nucleari al di là delle Alpi, ma i referendum degli anni 80 hanno causato la chiusura delle tre centrali nucleari in azione che avevamo in Italia allora.
Il problema non è quindi risolto, e anche se le centrali fossero solo quelle della Russia e del Giappone, lontanissime dall’Italia, ciò non potrebbe scagionarci dalla responsabilità che il pericolo di radiazioni, a seguito di disfunzioni o anche per cataclismi naturali, si riverserebbero sull’umanità, che in fondo è unica.
Ma anche il carbone, il petrolio sono inquinanti.
Allora i verdi rispondono con l’energia rinnovabile, eolica, solare, biomasse… Ma ad esse si replica che non sono consistenti, che agiscono solo nei momenti in cui il sole o il vento ci sono, insomma non sono sufficienti.
Sembra un problema irrisolvibile.
Veniamo al mio secondo quesito: se non abbiamo centrali nucleari, dipendiamo unicamente dai paesi Arabi o da altre dittature, tipo il Venezuela, che sono i massimi produttori di petrolio. Ora in più, soprattutto per l’Italia, c’è la guerra contro Gheddafi in Libia, per cui dobbiamo fare a meno del 25% della nostra energia proveniente da tale paese sotto forma di petrolio e gas. Cioè s’innesta l’instabilità politica ed economica, che sembra il destino di varie terre ricche di materie prime energetiche.
Ma a questo punto si possono considerare due pensieri di ordine generale: uno è che la lotta con l’imperfezione delle soluzioni prospettate è graduale e secondo che potrebbe la ricerca darci qualche tecnica ispirata che non inquina e produce sufficientemente energia.
Se non ci fossero state queste ultime valutazioni, saremmo rimasti all’età della pietra. Se queste ultime considerazioni sono degne di nota, allora dovremmo sempre entrare nell’orbita della progressione dell’esperienza, cioè non possiamo disdegnare qualche tecnica inquinante fino a quando non ne troviamo una migliore. Del resto le centrali di energia atomica ora sono più sicure di quelle del passato. Questo è proprio il principio del progresso umano. Certo si deve lottare anche contro l’egoismo, perché le fabbriche che poi si costruiscono sulla base di una scoperta scientifica sono determinate da forti investimenti, per cui se, poniamo, subito dopo una nuova tecnica sostituisce quella che ha determinato i forti investimenti, sia i privati che gli Stati interessati cercheranno, egoisticamente, di bloccare le nuove tecniche.
Questo è un ulteriore problema, per cui si sente in giro l’idea sull’esistenza di congiure contro l’auto elettrica o ad idrogeno, per boicottarle, perché la loro produzione di massa danneggerebbe gli investimenti di auto poggiate sul petrolio.
Insomma l’imperfezione umana non ha mai fondo.
Nel frattempo io penso che dovremmo rischiare con l’energia nucleare, so che è triste, ma altrimenti, pur sostenendo le rinnovabili, quindi creando un mix di fonti, se dessimo retta solo ai movimenti più estremi ecologisti, dovremmo rassegnarci al minore uso possibile dell’energia. Ma il nucleare ha un altro problema serio che è l’assenza di quantità necessarie di uranio per tutta la produzione mondiale di energia nucleare. Si puo’ prospettare la fine dell’uranio prima che le centrali nucleari italiane siano messe in funzione.
Speriamo di vedere dei governi con organizzazioni di imprenditori pronti a far fronte a tutte le sfide che questa rivoluzione energetica imporrà.
Dr. Jonathan Curci
martedì 10 maggio 2011
EBRAISMO CRISTIANO: LA CIRCONCISIONE DI CUORE
A volte basta leggere poche righe per avere chiare illuminazioni su problematiche certamente difficili, che si pensa di risolvere con studi eccessivi, che però disperdono spesso l’angolazione giusta per vedere il problema.
Il mio problema, a cui penso di trovare una risposta, è il rapporto iniziale tra ebraismo e cristianesimo nella prospettiva del suo rapporto finale, in questi ultimi giorni.
Leggendo il sotto riportato articolato di Atti nel Nuovo Testamento, noto come il problema della circoncisione, si presentò chiaramente nell’alveo del gruppo ebraico in cui si formò quello che è stato successivamente chiamato “cristianesimo”. Questo gruppo soleva chiamarsi in ebraico talmidei Yeshua (i discepoli di Gesu’) o maaminim (credenti), non era altro che un’interpretazione specifica e importante di tutta la storia ebraica, come hanno cercato di fare altri rabbini e movimenti ebraici di quel periodo storico.
Mentre altri predicavano le scritture ebraiche incluso il messaggio del rabbino Gesu’, vi sorse la questione della conversione dei gentili (non ebrei). La risposta di Pietro alla richiesta di circoncidere anche i Gentili convertiti, ci mostra come la semplificazione rituale, se ispirata da Dio, non perde il suo motivo originale di salvezza. Anche Giacomo indica, sempre nel testo sottostante, che le cose fondamentali sono di ordine morale, per piacere a Dio.
Per esempio, se un circonciso fornica non è accetto a Dio come se lo fa un Gentile non circonciso. Allora, io arrivo alla conclusione che tutti i riti religiosi, anche se autentici, cioè rivelati veramente da un Dio vero a veri profeti, possono non essere il discrimine tra verità e falsità, se non avviene una circoncisione di cuore.
Se i Testi del Nuovo Testamento sono veri, l’esempio dell’atteggiamento intollerante e violento di alcuni membri del nel Sinedrio al tempo di Ponzio Pilato è una chiara testimonianza che, pur nella religione più autentica e profetica esistente al mondo, l’ebraismo, se si perde il senso di mitezza e umiltà, lo stesso lo scopo finale di essere simili a Dio, quali figli di un Dio, per l’umanità non si realizza.
Infine credo che il rapporto iniziale tra cio’ che noi chiamiamo Cristianesimo ed Ebraismo nella storia umana possa indicarci elementi utili per comprendere come debba svolgersi il rapporto finale, nei nostri giorni appunto tra Ebraismo e Cristianesimo. Credo che, rileggendo le parole di Pietro e Giacomo, ebrei che hanno fondato il movimento “cristiano” non staccandosi dall’ebraismo, quindi sempre rimanendo ebrei, possiamo comprendere, come chiudendo gli occhi, cosa conta veramente e come l’unità sia invero reale e possibile, se l’atteggiamento è in noi lo stesso di questi primi ebrei cristiani.
E’ interessante in Atti 16 (Nuovo Testamento) vedere con quanta semplicità Paolo circoncise un cristiano di madre ebrea, Timoteo, che non era stato circonciso alla nascita, solo per rendere più normale il rapporto sociale che fosse preludio a miglior rapporto spirituale di ordine caritatevole.
Da questo io noto come il formalismo debba essere asservito ai motivi spirituali che concordano nel principio cristiano di volere veri adoratori in Spirito e Verità, piuttosto che adoratori formalisti, che non sentono neppur il vero significato delle forme autenticamente date da Dio agli uomini, ma che sempre devono restare nell’ambito del significato sentito e spirituale, nel cuore di ogni singola persona che si approccia alla religione divina.
Vorrei infine, avendo parlato della circoncisione, comprendere un concetto che può seriamente unire ebrei e cristiani, come lo furono all’inizio del propagarsi del pensiero cristiano, principalmente nell’ambito dell’ebraismo, il concetto è: “circoncisione di cuore”. I circoncisi di cuore sono coloro che non danno nulla per scontato, che hanno un atteggiamento di apprendimento verso gli eventi della vita.
Si tratta della mitezza e umiltà di cuore.
Questo atteggiamento è possibile riscontrarlo nelle persone, e non è una caratteristica di una sola religione.
L’atteggiamento mite e umile non vuol dire accogliere il pensiero altrui senza porre domande o svolgere una ragionamento critico verso ciò che viene proposto, se non è conforme alle convinzioni profonde di chi lo riceve.
Il mite e umile di cuore crede nella libertà di coscienza. Lascia a tutti la libertà di esprimere le idee in cui crede, anche se può non condividerle.
Allora come mai nella storia ci sono stati così tanti tribunali di inquisizione, come la Chiesa cattolica ha conosciuto, ma anche i dirigenti del Sinedrio (che si riteneva l’autorità del popolo ebraico) che con il complotto politico con Ponzio Pilato ha condannato Gesu’ ne sono stati esponenti esemplari?
Secondo me è il timore , che contraddice alla fede, che determina tale opposizione priva di mitezza e umiltà, soprattutto da parte di consessi e persone rivestite di potere sugli altri.
Probabilmente sono due i fattori che incidono in questi atteggiamenti persecutori e non miti e umili.
Il timore che le proprie convinzioni siano sconfessate, il che fa pensare che tali credenze non siano molto solide interiormente, e hanno bisogno dell’appoggio sociale per essere ritenute valide.
Il secondo motivo credo che è da ravvisarsi nell’ulteriore timore che lasciar esprimersi idee contrastanti alle proprie possa danneggiare la popolazione di cui ci sente essere la guida, e quindi responsabili.
Qui appunto il senso timoroso della responsabilità del potere, anche in buona fede, fa una parte veramente grande. Se poi si tratta di potere mantenuto, per scopi egoistici e di guadagno economico, la buona fede va tolta, e resta solo la mancanza di fede.
La circoncisone di cuore è appunto la conversione a un Dio amorevole con metodi amorevoli e di fede.
E’ per questo che credo che tra Ebraismo e Cristianesimo, in questi ultimi giorni, si possa ritrovare la comune radice e quindi tolleranza reciproca, solo se coloro, sui due fronti, che dialogano, sono persone miti ed umili di cuore, circoncisi di cuore.
(Dr. Jonathan Curci con la supervisione di Renato D'Andria)
L’ANTISEMITISMO NEI RITI CRISTIANI E ISLAMICI E L’ANTI-SIONISMO
Il progetto Genesi del dott. Renato d’Andria si propone di costruire dei rapporti tra le religioni basati sull’autenticità e la verità storica basandosi sulle revisioni che la scienza propone su fatti e processi (che hanno condotto alla situazione odierna delle mentalità in vari paesi del Mediterraneo). Rammentare le radici ebraiche dell’Islam e del Cristianesimo penso possa aprire a un dialogo di comprensione e di studio delle tradizioni religiose presenti tra le popolazioni dell’area Mediterranea. Il dialogo inter-religioso dovrebbe servire come punto di partenza per una vita armoniosa di scambi commerciali e culturali nel Mediterraneo in cui Israele dovrebbe avere un posto di tutto rispetto e in cui le relazioni nel Mediterraneo possano uscire dall’impasse attuale che vede Israele in una situazione di non riconoscimento da parte di vari stati arabo-musulmani o di ostracismo da parte di altri.
In quest’articolo mi soffermo sulla questione del dialogo su alcuni punti di divisione e di antagonismo.
Partiamo da questo periodo della Pasqua cristiana molti si ricorderanno della liturgia delle messe di qualche anno fa prima delle riforme attuate per eliminare segni di antisemitismo nelle Chiese cristiane: il Venerdi’ santo si ricordava l’uccisione del Cristo per mano degli ebrei, che spesso nella ritualità della messa erano stigmatizzati come perfidis judaeis.
Attribuire agli Ebrei l’uccisione di Gesù detto il Cristo è probabilmente la più subdola dichiarazione antisemita, se pensiamo che i primi seguaci di Gesù erano tutti Ebrei e che gli stessi predicavano il messaggio "cristiano" principalmente nelle sinagoghe ebraiche del Mediterraneo.
Alcune volte si sente addirittura dire, per fortuna non in luoghi pubblici, da certi cristiani che la Shoa è derivata agli Ebrei come punizione per essere stati gli autori dell’uccisione di Cristo. Niente di piu’ assurdo. Se i cristiani fossero veramente sinceri nella loro visione teologica della relazione tra il loro Messia e il popolo d’Israele si dedicherebbero allo studio della lingua del loro Messia, l’ebraico e non solo del latino o del greco antico, magari adotterebbero anche dei riti ebraici piuttosto che tramandare una liturgia che immagina i cambiamenti che Gesù avrebbe apportato ad essi. Insomma non solo il cristianesimo storico sembra essersi impadronito della religione di un Messia ebreo ma poi si è volta anche a perseguitarli, accusandoli di averlo ucciso. I cristiani dovrebbero comprendere piuttosto che l’esperienza di soprusi millenari sugli ebrei, nelle terre sedicenti cristiane non hanno fatto altro che far pesare anche sugli ebrei il sangue dei peccati e della malvagità delle nazioni, che il Messia ebreo Gesù prese su di se durante il suo sacrificio espiatorio, in qualità di servo sofferente nella tradizione messianica ebraica del Mashiach ben Yosef (Messia figlio di Giuseppe, e non Giuseppe il falegname padre di Gesù). Come si potrebbe altrimenti spiegare il piu’ grande crimine compiuto nelle terre cristiane contro gli ebrei durante la Shoa, se non come una sorta di compartecipazione metafisica degli ebrei a portare il sangue di Cristo? Gli ebrei non furono trattati come agnelli che non aprirono bocca davanti ai loro aguzzini dell’inquisizione o dei nazifascisti, proprio come Gesù davanti ai boia romani? Penso che la redenzione del mondo attraverso la risurrezione di Gesù, come indica la teologia cristiana, puo’ essere paragonata mutatis mutandis alla redenzione del mondo solo dopo l’olocausto degli ebrei, che condusse le nazioni a reprimere i crimini che gli Stati e il loro leader potrebberop commettere contro i propri cittadini o altre popolazioni. La convenzione contro il genocidio o la nozione di crimini contro l’umanità sono state coniate affinchè il mondo non ripeta gli stessi crimini come lo sterminio degli israeliti.
Le nazioni cristiane devono essere grate agli Ebrei per il fatto di avere quello che essi chiamano Antico e il Nuovo Testamento nella Bibbia, che sono la loro base morale. Agli Ebrei dobbiamo riconoscere il privilegio di avere tra i nostri principali termini religiosi le parole “sacrificio”, “espiazione&dquo;, “profeta”, “Messia”, “alleanza”, “fede”, “carità”, ecc...
La storia del paleocristianesimo insegna che con l’avvento dei Gentili alla leadership del movimento messianico di Gesù, la Chiesa Cristiana nelle sue forme e denominazioni disparate disconobbe i riti ebraici e quindi ne invento' di nuovi su una vaga base dei ricordi dei precedenti.
Quindi è legittimo domandarsi se i riti religiosi attuali, cattolici, ortodossi e meno nel mondo protestante e mormone, possono essere considerati l’alternativa all’Ebraismo? I riti religiosi formali, ripetitivi, sono senz’altro una forma di ricerca di partecipazione delle masse per aggregare la gente alle religioni e alle loro relative battaglie di supremazia.
Si può quindi spiegare che le forme religiose cristiane in Occidente non sono state un valido argine all’ascesa di altre forme religiose di falsificazione che hanno facilmente preso il posto di tali religioni, pur restando in piedi, perché nel cuore delle masse il Nazismo, il Comunismo, il Fascismo e forme moderne di democrazia sono facilmente penetrate come priorità nel superstizioso mondo, in realtà poco religioso, presente in occidente.
Bisogna estendere al Medio Oriente e all’Islam lo stesso paradigma di confronto con il mondo ebraico data la sua precedenza ed il fatto che è storicamente provato che l’ebraismo è stato la fonte primaria d’ispirazione di Maometto per la sua predicazione e per l’organizzazione liturgica della religione islamica, nonchè per la stesura del Corano da parte dei suoi epigoni. Si nota in generale che i popoli arabi, in qualche modo diventati musulmani, oltre alle comuni ritualità formali che hanno fortemente attinto alla struttura liturgica ebraica, hanno creato, al pari dei cristiani delle crociate, Carlo Magno ecc.., un sistema di formazione obbligata delle popolazioni al proprio credo, non con elementi di proselitismo intellettuale, ma di sola appartenenza logistica. Il che è avvenuto, in altri territori, principalmente cristiani, se pensiamo anche perfino alle lotte tra cattolici e protestanti in Europa. Tutto questo sistema ha reso così le popolazioni sorte e viventi nei territori di influenza religiosa, sia islamica che cristiana, o di altre confessioni, a digiuno dei contenuti della Bibbia ebraica e della lingua ebraica.
La gente comune che non si pone questi problemi non ha colpa propria, essi ascoltano e purtroppo, solo in sparuti casi, alcune menti illumunate ricercano piu' a fondo l'origine delle cose superficialmente visibili. Ma chi forma le idee che devono essere fatte circolare nelle istituzioni religiose e culturali, a cui il popolo appartiene, ha una responsabilità maggiore. E' ancora piu' grave la situazione in cui la scelta di poter studiare il fatto religioso, porta a strozzare la propria libertà di coscienza.
Come si puo’ dire che il fondamento della religione musulmana è interamente autentico, se sostituisce tutto d’un tratto il popolo dell’alleanza da quello ebraico a quello arabo e se il suo libro di base contraddice letteralemente vari passi biblici, ai quali esso afferma di essere ispirato? La necessità di studiare attentamente i testi prima che un individuo si dica appartenente ad una o all’altra religione sembra essere in generale meno prioritario della propria identità, che proviene dalla problematica atavica delle motivazioni relative all’appartenenza logistica delle popolazioni.
Da qui parte un’altra antica forma di antisemitismo che odiernamente assume il nome di anti-sionismo. Questa forma di antisemitismo trova tutte le ragioni per rompere il legame del popolo ebraico, il popolo della Bibbia, alla terra a cui atavicamente appartiene. Si tratta di un piccolo lembo di terra sulla costa orientale del Mediterraneo, in cui si è formato uno degli Stati piu’ bello e piu’ in pericolo sulla faccia della Terra. Paradossalmente l’unico Stato creato con un voto favorevole dell’Assemblea delle Nazioni Unite e lo Stato la cui capitale non è riconosciuta come tale da nessuno Stato al mondo.
Ma facciamo un rapido flashback. Il popolo ebraico si è costituito in forma patriarcale, derivata da Abrahamo, quindi Isacco e Giacobbe e dalle conseguenti 12 tribù di Israele. A tale popolo è stato assegnato un luogo nella terra antica chiamata di Canaan, poi diventata Terra di Israele e solo in seguito Palestina. L’origine del popolo di Israele è appunto patriarcale profetico, e quindi la terra viene assegnata da motivazioni di autentica religiosità, che io intendo solo la rivelazione sacerdotale profetica, in questo caso con riti adeguati e di carattere eterno, con obiettivi di rimembranza utile al processo comportamentale che purifica, perfezione e salva.
L’anti-sionismo, una forma di antisemitismo, si propone come collegata solo a motivazioni di politica internazionale, che sono sicuro, che col tempo porranno la comunità internazione contro lo Stato d’Israele, per incompatibilità dottrinale con il diritto internazionale formato da risoluzioni delle Nazioni Unite e dalla consuetidine. E’ infatti del tutto inammissibile per organismi come l’ONU e altri riconoscere il valore di asserzioni bibliche che affidano al popolo di Israele il possesso di tale territorio, eppure la leadership internazionale occidentale che accoglie nella sua religiosità l’Antico Testamento, dove tale tipo di asserzione è inserita.
Ma ancora una volta la religione formalistica non riesce ad avere la supremazia sugli interessi economici e politici, molto collegati oggi al rifornimento petrolifero, per cui pur di malavoglia l’occidente può sentirsi costretto ad appoggiare i paesi arabi, ricchi di petrolio, nella loro lotta territoriale contro Israele. A questo punto l’antisemitismo si fa cosmopolita e si confonde con l’anti-sionismo.
Citavo prima i Mormoni che sono staccati dalle classificazioni cristiane generali: si dicono cristiani mentre che a le altre denominazioni cristiane non li riconoscono come tali oltretutto perché essi hanno come ulteriore libro canonico, per l’appunto il Libro di Mormon, scritto da antichi profeti ebrei nella loro antica dispersione. Un brano di questo misteriosissimo Libro di Mormon è molto attuale e va a fagiolo per il mio attuale discorso, esso dice quanto segue:
[2.Nefi.29:4] Ma così dice il Signore Iddio: O stolti, essi avranno una Bibbia; ed essa procederà dai Giudei, il mio antico popolo dell'alleanza. E come ringraziano essi i Giudei per la Bibbia che ricevono da loro? Sì, che cosa pretendono i Gentili? Ricordano essi i travagli, le fatiche e le pene dei Giudei e la loro diligenza verso di me, nel portare la salvezza ai Gentili? ...
[2.Nefi.29:5] O voi Gentili, vi siete ricordati dei Giudei, il mio antico popolo dell'alleanza? No; ma li avete maledetti, li avete odiati e non avete cercato di ristabilirli. Ma ecco, io farò ricadere tutte queste cose sul vostro capo; poiché io, il Signore, non ho dimenticato il mio popolo. ...
[2.Nefi.29:6] Stolti voi che direte: Una Bibbia, abbiamo una Bibbia e non abbiamo bisogno di altre Bibbie. Avreste ottenuto una Bibbia se non fosse stato per i Giudei?
Questa dichiarazione mi da un senso migliore del rapporto opposto all’antisemitismo e lo troviamo nella religione Mormone, che guarda caso si riallaccia al principio fondamentale della presenza profetica, quindi della rivelazione, quale sostrato efficace alla religione, che quindi nella sua autenticità pone piuttosto la ritualità solo per quello che può essere memento per il comportamento più consono all’insegnamento divino.
In realtà il vero spirito cristiano non è altro che un risarcimento dell’autenticità profetica ebraica, che in Cristo vedeva Colui che interpretava la legga in modo profondo e non schiavizzante. In realtà Gesù era un autentico ebreo e non un formalista ebreo.
Perciò intendo concludere questo ragionamento con l’asserzione che, come al tempo di Mosè c’erano seguaci come Caleb e Giosuè, cioè coraggiosi ebrei e umili osservanti dello Spirito ebraico divino, cioè profetico, c’erano anche altri poco coraggiosi, nemici di Mosè, come nella storia ebraica ci sono stati ebrei che hanno ucciso i profeti ebrei, e tra questi alcuni capi sacerdoti malvagi, mi permetto di dire, a causa della loro intolleranza e ipocrisia religiosa formalistica, come furono alcuni capi della setta ebraica farisaica, i quali si unirono in segreto all’opportunista politico Ponzio Pilato per fa mettere a morte un grande innocente che lottava per la propria libertà religiosa come Gesù Cristo.
Ma Dio sembra volgere sempre, nel mondo ebraico, il male in bene, come dalla Shoah poi è scaturito lo Stato d’Israele. Sulla stessa stregua sono certo che Dio volgerà alla fine l’antisemitismo e il subdolo anti-sionismo in opportunità per il popolo ebraico di rinforzare la propria identità autentica con tutti I testi sacri del passato e con la presenza di profeti futuri che speriamo predicheranno un possibile scambio armonioso con le persone di buona volontà delle altre religioni vicine al piccolo Stato ebraico.
Roma, 14 Aprile 2011
La libertà di religione tra onorare i genitori e adorare Dio
Sicuramente il mondo vede e ha sempre visto contrapposte fra loro le religioni. Affiorano spesso lotte dottrinali, su principi, testi e interpretazioni.
Il progetto “Genesi”, impostato dall’imprenditore e editore Renato D’andria, serve, inter alia, a stimolare il dibattito sullo scopo della religione che dovrebbe essere soprattutto personale oltre che sociale. L’uomo dovrebbe essere al centro della religione.
La ricerca della vera religione dovrebbe scaturire da una libera scelta piuttosto che da un indottrinamento quasi o completamente imposto. La libera scelta di religione e strettamente connessa a una libertà fondamentale sancita dai concetti relativi alla libertà di coscienza che dovrebbe essere comune a tutti gli esseri umani, mentre attualmente assistiamo a tendenze presenti in vari paesi rivieraschi del Mar Mediterraneo in cui capi religiosi costringono degli individui a seguire una certa religione con minacce di ogni tipo.
Da questo risorgente problema scaturisce tutto l’impegno di Renato d’Andria che raduna accanto a se intellettuali e politici per far comprendere l’importanza della libertà di coscienza e la libertà della circolazione d’informazione sulle culture diverse per un maggior chiarimento della propria identità di ogni individuo.
La religione è una questione personale piu’ che strettamente sociale e di popolo. A mio avviso la religione si rivolge a un Dio come persona perfetta nelle caratteristiche umane migliori: potere nel libero arbitrio, giustizia e misericordia.
In questa fase dell’articolo, senza dare valorizzazioni ad una o altra religione, intendo porre alcuni esempi confacenti solo per esemplificare il mio assunto. Il personaggio Gesu’, di cui si sono occupate le tre fedi monoteiste, trascorse 40 giorni nel deserto della Giudea digiunando, come la sua università ed esame finale prima di attivarsi nella sua missione, ministero o in quella che era la sua attività principale, anche se i termini sono sicuramente inappropriati.
I Vangeli riportano che in quel periodo Gesù ha percepito gli impulsi dell’annebbiamento superficiale delle cosiddette tentazioni umane, e le ha combattute difendendosi con alcune sacre scritture dei profeti ebrei, secondo i principi appresi sicuramente nella sua yeshiva (la scuola rabbinica che ogni figlio d’Israele osservante frequentava). Gesu’, in quel frangente, sembra aver dimostrato di aver superato la prova fondamentale di quella che io intendo vera religione: e cioè la nostra pratica religiosa trasforma o no il nostro modo di vivere? Ci fa diventare persone più profonde riuscendo a vincere le nubi del male e della superficialità?
Le tentazioni di Gesu’ furono le passioni carnali, l’orgoglio con i suoi affluenti, cioè l’ira, la presunzione, e infine l’ultima tentazione e cioè : Chi adoro veramente?
In quest’ultimo caso gli fu posta la tentazione di adorare il denaro e il potere mondano, ed egli superò la prova dicendo che voleva adorare suo Padre: come se si trattasse di un Uomo perfetto. Per Gesù in quella occasione, come in altre, piacere caratterialmente a suo Padre dei Cieli era la principale attività religiosa.
Ma la religione non è forse tramandata dai genitori? Vi è scelta quindi se una persona nasce in una certa religione?
A questo punto voglio dire qualcosa sulla la differenza tra due termini della tradizione ebraica a cui sia Gesù maestro ebreo che Maometto si sono ispirati per il loro ministero. Il primo è ”onorare” che si riferisce nei comandamenti ai genitori e la parola” adorare” che invece si riferisce al Padre dei nostri spiriti, il Padre eterno, Dio. E cioè l'onore, secondo l'origine ebraica kavod, vuol dire “pesare”, quindi si da un peso maggiore a chi ci ha permesso di nascere e vivere fornendoci un corpo, una casa, una protezione ed ogni cosa utile a questo mondo. Ma dov'è la differenza col Padre invece dei nostri spiriti? “Adorare”, sempre in ebraico hishtachawàh, indica prostrarsi, il che mi fa pensare non soltanto a un termine di paragone con altro, noi per esempio, come pesare, cioé onorare. Piuttosto mi fa pensare di cercare di rispettare il volere divino in noi. Cioè per i genitori possiamo misurare il loro peso reale nella nostra vita, dandogli un valore superiore anche al nostro, almeno materialmente, gratitudine per le cose e gli strumenti offertici per vivere e quindi poter fare il resto di nostra volontà. Invece prostrarci non è solo dare un valore, non ce ne usciamo facilmente a meno che, sempre liberamente, non dimostriamo di introitare il volere divino e convincerci facendolo nostro. In realtà possiamo onorare i genitori, talvolta distinguendoci dal loro volere, perché essendo umani loro, i genitori, potrebbero sbagliarsi su taluni punti e quindi potremmo non decidere di seguire un loro specifico comportamento, caso mai contrario al volere divino, che invece decidiamo di seguire.
L’esperienza del primo ebreo e patriarca delle religioni abrahamitiche mise in pratica questi principi quando lui scelse la sua religione diversa da quella padre. Anche lui subi’ la violenta intolleranza da parte del padre che doveva onorare e della sua autorità politica a cui doveva obbedire. La religione di Abrahamo fu’ tutta personale e seguiva solo Dio che gli diceva Lech Lecha, in ebraico “vai verso te stesso”, che divento’ il titolo di quell’episodio biblico. Come è possibile che vari segmenti dei movimenti religiosi che parlano di Abrahamo non riescono ad applicare il principio della libertà di religione nella sua pienezza? Non ci si puo’ stupire se addirittura chi si diceva il vicario di colui che disse di porgere la propria guancia ai nemici invece inizio’ delle guerre spietate nella storia del cristianesimo.
Per questo è importante distinguere tra la relazione con Dio e quella con gli uomini di qualsiasi religione. L'adorazione ci coinvolge totalmente, spiritualmente, l'onore ci coinvolge anche solo materialmente o in termini di rispetto, in tal caso, anche solo esteriore. In realtà l'adorazione verso Dio ci porta ad onorare i nostri genitori nella giusta maniera, o con il giusto “peso”, perché in fondo è Dio che li ha scelti per noi, per questo è Dio a comandarci di onorarli, così facendo adoriamo Dio e riconosciamo le Sue scelte e il Suo volere nei nostri confronti.
Spesso si pensa alla religione come rito e dottrina, in questa accezione invece, sopra riportata, la vera religiosità sta nel suo effetto nella vita personale.
A mio avviso il rapporto personale con l’Essere Supremo e come quello di un raggio col sole, individuale, illuminato personalmente, e la validità dell’illuminazione sta nella ricezione di accumulazione del singolo raggio.
Se si paragona al sole Dio e ai raggi gli esseri umani, quali figli di un Dio, allora il vero scopo della religione è far sì che autonomamente, ma in decisa dipendenza, il figlio si prepari a diventare Padre, con le Sue estese caratteristiche, se pure esiste una unicità individuale.
La somiglianza piuttosto che l’uguaglianza meglio rappresenta biblicamente il rapporto tra Dio e i Suoi figli.
Roma, 17 Febbraio 2011
La situazione di pace nel Mediterraneo: influenze che dal Pakistan arrivano fino all’Egitto
Quando si analizzano le situazioni di proteste violente della popolazione contro le forze dell’ordine dei regimi in Medio Oriente, non bisogna dimenticare le influenze che i paesi mediorientali ricevono da altre regioni. Per questo la Fondazione Salvemini creata dall’imprenditore e editore Renato D’andria si occupa del dialogo tra i Paesi rivieraschi del Bacino Mediterraneo con parallela attenzione verso i paesi del Mar Caspio. Più ad Est di questo mare su cui si affaccia anche l’Iran, oltre il Kazakstan, la situazione del Pakistan e dell’Afghanistan lancia dei segnali preoccupanti verso l’attuale ridefinizione del potere nei paesi mediorientali arabo-musulmani che si affacciano sul Bacino Mediterraneo.
Il Pakistan ha raddoppiato il suo arsenale nucleare senza che la diplomazia internazionale ponga opposizioni. La tensione sulla corsa al nucleare continua mentre ogni tentativo internazionale di ridurre le armi atomiche finisce sempre con l’accusa contro l’arsenale nucleare, mai dichiarato ufficialmente, del minuscolo Stato d’Israele, iperarmato, che vive come un’isoletta circondata da nemici che hanno da un secolo cercato di annientarlo. E’ comunemente risaputo che Israele detiene qualche centinaia di testate nucleari come deterrente per non essere eliminato dalla carta geografica. Siccome Israele ha quest’arma tutti i suoi accusatori sono legittimati ad ottenerla. E solo se Israele la elimina tutti gli altri stati la elimineranno.
La cosa più paradossale è che la crescita del nucleare pachistano si realizza mentre l’economia del paese va sempre peggio, il suo governo è sempre più barcollante e larghe porzioni del paese sono controllate dai talebani. Il Pakistan riceve più aiuti dagli Stati Uniti che qualsiasi altro paese... forse più d’Israele. La critica più acuta a questi aiuti asserisce che una parte dei suoi fondi vada al progetto nucleare, poichè non vi sarebbe nessun’altra spiegazione per lo stato effettivo di bancarotta dello Stato.
Questo stato delle cose sembra ancora più assurdo quando vari segmenti del governo e dell’establishment militare aderiscono ad una linea anti-americana, e mantengono delle relazioni strette con Al-Qaida e coi Talebani. Il grande nemico di questo establishment è Israele, massima espressione del nemico infedele occidentale. La situazione è preoccupante perchè, data la miopia del presidente Obama, il Pakistan è l’esempio di ciò che possono diventare i prossimi regimi mediorientali in mano al subbuglio popolare. Le masse guidate da lobby di pensiero che strumentalizzano la religione dell’Islam può portare i regimi di Egitto, Tunisia ecc. all’ottenimento di armi di distruzione di massa, a governi centrali che non controllano la situazione della sicurezza e l’applicazione della legge in varie parti del paese, all’impoverimento per mancanza di organizzazione dell’economia statale, alla radicalizzazione della popolazione verso regimi militari pro-islamici con tendenze religiose aggressive e apocalittiche (come l’Iran). In effetti il controllo dei Talebani e di al-Qaida da un quarto a un terzo del territorio pakistano e il loro sostegno popolare nel paese è qualcosa di sconvolgente. Le masse popolari che vogliono far ascoltare la propria voce diventano poi le vittime dei leaders e dei regimi che sono succeduti a quelli che queste masse popolari hanno sollevato. Il problema quindi risiede nella mentalità dominante e in come essa viene incanalata da chi comanda.
L’amministrazione di Obama che comanda la nazione leader dell’occidente non ha una strategia chiara per risolvere questa piaga dilagante che rischia di attecchire in tutto il Medio Oriente dall’Afganistan e Pakistan fino al Mediterraneo. Dalla guerra contro il terrorismo di ispirazione islamica iniziata da Bush si è passati al timido “overseas contingency operation” (operazione di contingenza di oltremare).
Obama usa gli eufemismi più inesatti per descrivere pubblicamente il vero pericolo: i termini “jihad e terrorismo islamico” sono spariti dal linguaggio per essere sostituiti con “Islam radicale” che appare nei documenti ufficiali americani.
Le decisioni dell’amministrazione provengono dallo snaturare questa realtà e accettare il terrorismo organizzato islamico come qualcosa di solamente radicale.
Questa tendenza porterà presto un’amministrazione come quella di Obama ad accettare la sovranità di Hamas su Gaza e l’influenza della sua ideologia sottostante su tutto l’Egitto post-Mubarak. Evitare gli scontri porterà i nemici ad agire indisturbati per raggiungere la loro vendetta contro gli USA facendola pagare innanzitutto a Israele, suo ambasciatore nel Medio Oriente nonché cancro nel cuore dell’Umma Islamica.
Ci si domanda se in queste regioni democrazia significhi che il popolo accetti di seguire chi ha conquistato il potere con maggiore violenza instaurando un regime sempre più basato sui principi della sha’aria islamica (diritto islamico) che include l’oppressione sulle donne, la mancanza di libertà di coscienza, di espressione e di religione nonché la sottomissione delle minoranze allo stato inferiore di dhimmi.
Jonathan Curci, Ph.D, LL.M Specialista delle questioni di diritto internazionale del Medio Oriente e delle questioni inter-religiose; Professore alla University of Business & International Studies, Ginevra, Svizzera. E’ stato Ricercatore all’Università di Ginevra e professore assistente all’Università Al Quds nei territori palestinesi.
Roma, 10 Febbraio 2011
Uno sguardo all’attuale situazione della sicurezza in Medio Oriente
In questo momento il grande timore degli analisti occidentali della situazione della sicurezza nel Mediterraneo è che lo stesso popolo egiziano che ha cacciato il dittatore Mubarak possa sostenere o tollerare le tendenze pericolosissime del movimento dei “,;fratelli musulmani” basate sull’odio verso gli ebrei e l’America, sul sostegno al terrorismo islamico e contro i regimi arabi che non sposano la causa della jihad armata contro gli infedeli.
Nel frattempo, l’Iran non ha aspettato troppo tempo per tentare di inviare due navi militare lungo l’importantissimo canale di Suez (da cui passano il 40% delle navi del mondo) forse per salutare la rivoluzione egiziana e portare le masse verso il proprie alleanze regionali Iran-Siria-Turchia-Libano. Nel contempo, Nasrallah si permette, con tutta la libertà, di inveire contro Israele e l’Occidente a pochi kilometri dal confine con lo Stato ebraico. Nella sua retorica che convince le masse arabe, il leader dei Hizballah afferma senza scrupoli che l’esistenza di Israele è il vero problema del Medio Oriente: Israele che “ammazza e fa carneficine, confisca le terre (arabe), caccia i suoi abitanti, con il sostegno dell’Occidente”.
Ciò che è ancora più sorprendente è che l’amministrazione di Obama, che in teoria rappresenta l’Occidente, abbraccia l’inclusione dei fratelli musulmani in un governo egiziano post-Mubarak. L’accusa contro Obama degli analisti preoccupati della situazione è che nella stessa maniera con cui ha sostenuto il popolo contro Mubarak, il presidente statunitense non si è pronunciato contro il pericolo dell’Islam radicale”, in realtà del “,;terrorismo islamico” che aizza le proprie popolazioni contro gli infedeli. Obama infatti cerca di negoziare con l’Iran (ispirato dall’ideologia dell’eliminazione d’Israele e dall’instaurazione di una dominazione islamica shiita sul mondo), insiste sul ritiro dall’Iraq e dall’Afganistan (che da campo libero ai talebani integralisti), tollera il regime di Hugo Chavez (che cova l’anti-americanismo e si coalizza con questi nemici degli USA e di Israele). Ci si domanda se la diplomazia di Obama segue e accetta gli eventi invece di svolgere il ruolo naturale di leader mondiale.
La visione messianica di Obama non si concentra su questi problemi gravissimi. Invece la sua soluzione al problema dell’”Islam radicale” risiede nella creazione dello stato palestinese. Nella sua visione, la soluzione del “,;conflitto dei conflitti” porterà a risolvere tutta la questione dell’animosità islamica contro l’Occidente americanizzato. Ma in realtà questa non è la soluzione all’instabilità di vari paesi del Medio Oriente, del malcontento delle masse e della spartizione dei poteri. Non importa che la fondazione dello stato della Palestina all’ovest del Giordano si realizzi su terre la cui sovranità è ancora fortemente disputata con gli israeliani e lo Stato ebraico. Inoltre, la creazione di uno Stato della Palestina senza garanzie che i suoi dirigenti non seguiranno l’ideologia islamica è l’inizio di un nuovo conflitto ancora più grande di quello che si cerca di risolvere. Se non ci si assicura di come il popolo palestinese della Cisgiordania sarà guidato, esso, lo Stato della Palestina diventerà la pista di lancio di attacchi sempre più sofisticati prima contro gli ebrei che vivono nei territori palestinesi e, appena ricevute le armi necessarie dalle popolazioni degli stati vicini, si scaglieranno al di là del muro contro Gerusalemme e Tel Aviv.
Le convulsioni di massa che si stanno verificando in molti paesi arabo musulmani contro i regimi autoritari potrebbe sprigionare le forze jihadiste che vedono come primo nemico Israele. Lo Stato palestinese non da nessuna garanzia che non si allinei con questa spinta jihadista anti-israeliana, dopotutto la retorica di base dice che gli infedeli ebrei, coadiuvati dall’occidente, hanno strappato la terra ad essi stessi. Non ci si può aspettare uno Stato palestinese amico d’Israele. Intanto, i leaders Europei continuano ad allinearsi con Obama e a costringere Israele a concedere più terre disputate con gli arabi palestinesi, per stabilire un altro Stato che alla fine seguirà il vero sogno arabo-musulmano jihadista: gettare i sionisti a mare e eliminare il “,;regime sionista” in tutta la Palestina.
Il minuscolo Stato d’Israele si sentirà sempre meno sicuro, e al contempo i pericoli reali di animosità nei suoi confronti aumenteranno man mano che circoli di potere sempre più ostili a Israele si alternano, dopo gli scontri tra la popolazione e il governo centrale.
Visto che è risaputo che Israele è dotata di un ampio arsenale atomico, i paesi della regione devono essere accorti sulle conseguenze di uno scontro armato contro il considerato nemico comune. Addirittura la Corte internazionale di giustizia, nel suo parere consuntivo del 1996, ha ammesso l’uso della bomba atomico come “,;droit de survie extreme”, (diritto di sopravvivenza estrema) cioè nel caso in cui la sopravvivenza dello Stato sia messa in pericolo.
Onde evitare reazioni possenti da parte di Israele che possono sfociare addirittura nell’uso terribile della bomba nucleare, in caso di pericolo estremo di esistenza dello Stato stesso, da parte di uno stato un po’ diverso dagli altri vicini, come Israele, che è formato da una popolazione che ha avuto l’esperienza unica del genocidio, bisogna conoscere i pericoli di questo subbuglio nei regimi mediorientali. Invece di preoccuparsi dei problemi di crescita economica, si parla di potere e di aggressività, come se la competitività si faccia con la forza invece che con l’intelligenza. La conseguenza è uno stato continuo di animosità che non permette la sofisticata organizzazione del giro della moneta che determina la crescita economica e il benessere. Il capro espiatorio di quest’animosità è Israele: nemico comune perché diverso all’interno dell’Umma Islamica. Le regole del gioco, fondate sulla forza, portano sempre a scagliarsi contro Israele sotto l’eufemismo della Palestina libera, senza capire la storia di quella terra e a trovare soluzioni che non portino alla dominazione e all’umiliazione di un popolo nei confronti di un altro.
Israele osserva tutto dal suo cantuccio, preparando la propria società su tutti i fronti anche quello militare per sopravvivere, mentre Obama chiude gli occhi sui veri pericoli del mondo e da spazio alle forze che ha deciso di ignorare e di tollerare: la crescita dell’ideologia della jihad dappertutto, il terrorismo islamico e le avventure nucleari di certi regimi.
L’obiettivo anti-israeliano si sta raggiungendo: Israele è sempre più isolata mentre cerca di gridare il pericolo imminente nella regione. L’opulento occidente è troppo concentrato sulle questioni delle vita privata dei propri leaders o far quadrare i conti dei bilanci statali per cui è sempre meno amico del fastidioso nemico degli arabi, da cui essi dipendono energeticamente. Israele, il capro espiatorio dell’incapacità dei paesi arabi ad organizzarsi in un modo utile alla creazione di prosperità, pace e sicurezza, potrebbe reagire anch’essa in una maniera impulsiva per far crollare il muro di menzogne che si sta erigendo da Islamabad al Cairo, passando da Ramallah.
L’impegno d’Israele ora sarà quello di ricalibrare le relazioni con i paesi arabi, visto che ciò che è che accaduto in Tunisia ed Egitto potrebbe accadere in altri paesi arabi della regione. Gli analisti confermano che i Fratelli Musulmani rimangono il gruppo più organizzato dell’opposizione in Egitto. E’ risaputo che esso serve come antenna alle operazioni di Hamas.
Quando le nuove forze islamiche dovranno trovare un nemico comune, esse si scaglieranno contro Israele. Il pericolo più grande per la sicurezza internazionale è che la transizione da uno stato dittatoriale alla democrazia in questi paesi significherebbe dirigere i furori delle masse contro Israele, elemento estraneo alla regione islamica, che farà coalizzare le varie fazioni islamiche dello scenario della democrazia dei paesi arabi. Questo a sua volta significherà sostegno alla rincorsa del nucleare da parte dell’Iran.
Un Egitto ostile significherebbe la cessazione della fornitura di gas naturale verso Israele, la quale è diventata fortemente dipendente. Segni in questo senso già si intravedono. Tali timori sono già stati espressi dal Primo Ministro Binyamin Netanyahu, il quale nella conferenza stampa con il Cancelliere tedesco Angela Merkel questa settimana ha espresso le sue profonde preoccupazioni che la rivoluzione egiziana potrebbe prendere la forma di quella iraniana del 1979.
Il secondo scenario, che offre maggiore speranza certamente, sarebbe quello di vedere la nascita di un Egitto democratico e laico che sarebbe in grado di mantenere i trattati di pace e buone relazioni con gli Stati Uniti. Tale speranza passa attraverso il potere militare che garantirebbe la stabilità nella fase di transizione dal regime di Mubarak ad un vero Egitto democratico, privo di una significativa influenza da parte degli Islamisti. Ma questa è una velleità, poiché l’Islam è l’unico punto di riferimento della coscienza arabo-musulmana e gli imam potranno sempre più colmare il vuoto politico. L’unico elemento deterrente nei confronti di questa previsione è che ogni nuovo governo, che metterebbe a repentaglio la sicurezza d’Israele, sentirebbe l’impatto della fine dell’aiuto di 1,5 billioni di dollari che gli Stati Uniti inviano ogni anno al fine del mantenere tali trattati.
La cooperazione militare, mantenendo le forze fuori del Sinai, concedendo permessi di transito Settimanali, evitando la violazione dei trattati di pace, attraverso l’aiuto degli Stati Uniti e la collaborazione con l’intelligence israeliana, offre una vera speranza che un Egitto democratico potrebbe più assomigliare alla Turchia che all’Iran.
D’altro canto è chiaro che Israele manterrebbe abbondantemente gli accordi di pace, indipendentemente dalla coalizione che assume la dirigenza del paese. Detto tutto ciò, anche se le relazioni Israele - Egitto ed Egitto - Stati Uniti sono mantenute, comunque i riverberi delle proteste e il ruolo dell’Egitto quale centro della cultura araba, determinano un’onda di riforma in tutta la regione mediorientale. Altri leaders arabi stanno lavorando per trovarsi pronti a questi venti di sommosse popolari : il re di Giordania Abdullah ha dimissionato il suo gabinetto, e il Presidente dello Yemen Ali Abdullah Saleh ha dichiarato di non volersi ricandidare alle prossime elezioni, né passerà il potere a suo figlio, quando terminerà il suo mandato nel 2013.
Infine c’è un altro scenario: Israele ha bisogno di essere preparata ad affrontare una regione in costante cambiamento. Le sue iniziative di pace devono necessariamente realizzarsi in un consesso multilaterale e non ci si può accontentare di in un mero bilateralismo cangiante. Non si può sperare in una pace duratura con l’Egitto quando la sua popolazione è influenzata dalla mentalità ostile della leadership di Siria, Palestina e Libano. Non c’è mai il momento ideale per raggiungere la pace, c’è sempre presente un grande rischio nella regione, se si pensa che allo stesso tempo della pace israeliana con l’Egitto, i fronti bellicosi sono aperti con gli Islamici radicali: l’Iran e la Siria ad Est, Hamas al Sud, Hizballah al Nord.
L’iniziativa di pace della Lega araba apparentemente offre una via per mitigare il rischio e ricevere il massimo raggiungibile: il fatto di normalizzare le relazioni con 22 nazioni implica il fatto che, se un paese arabo viola questo accordo, sarebbe in violazione nei confronti di tutti gli altri stati arabi. Il rischio opposto invece è che se le negoziazioni tra Israele e i 22 stati arabi falliscono, Israele si può trovare nella situazione di rinnovata ostilità nei confronti di tutti questi stati. Questa è la differenza tra le negoziazioni regionali e le negoziazioni bilaterali. Siccome i rischi di fallimento dei colloqui di pace per raggiungere un accordo sono alti, il fatto stesso di negoziare rappresenta un pericolo grosso per chi non potrebbe riuscire a firmare una pace, secondo i criteri imposti dai 22 stati che sono d’accordo su molti punti già dall’inizio delle negoziazioni, quali: rifugiati, la sovranità sulla capitale Gerusalemme, la restituzione di tutti i territori occupati dopo 1967, evacuazione degli ebrei viventi in Giudea e Samaria, in quanto popolazione trasferita in violazione della quarta convenzione di Ginevra.
Naturalmente bisogna vedere se l’iniziativa di pace sopravvive a questa fase di sconvolgimenti politici nei paesi arabi.
Se Israele assicura di non perdere tale opportunità, abbracciando l’iniziativa di pace, mostrando il suo interesse verso l’Egitto e la Giordania, le proposte della Lega araba, e inoltre dimostra la volontà di accogliere i negoziati con i Palestinesi e il mondo arabo in generale, tutto ciò sarebbe un segnale di sostegno alla democrazia egiziana, un’opportunità di lavorare col governo che si è formato al fine di mantenere e far avanzare ogni relazione, tutto ciò avrebbe un vero significato per il miglioramento della questione palestinese.
In conclusione, una pace in Medio Oriente non può che fallire, se è fatta tra regimi dittatoriali fondate sulla concentrazione dei poteri piuttosto che sulla separazione dei poteri, sull’arbitrato del despota piuttosto che su uno stato di diritto fondato sulle libertà fondamentali, riconosciute dalle Nazioni Unit, e che sposano ideologie di mancanza di libertà di coscienza e di protezione delle minoranze etnico-religiose.
Roma, 6 Aprile 2011
La Transizione dalla dittatura alla democrazia nei paesi arabi nel raggiungimento dell’uguaglianza tra i popoli
Quando vediamo i giovani tunisini arrivare sui barconi all’isola di Lampedusa, possiamo considerarli o una massa di diversi o delle persone come noi. Dopo il primo impatto sociologico credo che non possiamo che vederli come uomini singoli, proprio come noi. La divisione storica in popoli, nazioni e stati diversi affievola questo sentimento d’eguaglianza. Per questo come Renato d’Andria afferma, bisogna trovare un linguaggio precedente alle differenze e una cultura che accomuna i popoli del Mediterraneo nelle loro divisioni.
Lo stesso passaggio dovremmo fare nell’attribuire anche a loro il tipo di governo che noi abbiamo. Possono essere i paesi arabi democratici? O loro sono diversi e sono costretti a vivere in una semi-democrazia, oligarchia, monarchia o dittatura? Possono anch’essi godere delle libertà fondamentali sancite dal diritto europeo e internazionale dei diritti umani?
E’ innegabile che le istituzioni democratiche di stampo occidentale, con tutti i loro limiti, sono un bene che collima con la libertà di scelta dell’individuo, almeno comparativamente rispetto ai regimi islamici.
è vero, se pensiamo all’Iran, possiamo temere che la richiesta di democrazia da parte delle popolazioni arabe celi dietro di sè le organizzazioni cosiddette “terroristiche” che fagocitano le aspirazioni politiche delle masse arabe per canalizzarle in espressioni violente contro Israele o l’Occidente. Sappiamo che queste organizzazioni sono più attrezzate di altre danno delle risposte immediate fondate su una base chiara della cultura islamica e possono guidare l’opinione pubblica che è vissuta con libertà di scelta limitate.
La dittatura in vari paesi arabi ha innegabilmente contribuito a un mantenimento relativo di queste masse nei propri confini, ha bloccato la partenza di barconi con masse di immigrati, ha stabilizzato le strutture economiche del paese e, pur non distruggendolo, ha frenato il terrorismo più di quanto la loro assenza poteva fare (ad esempio, il terrorismo all’interno dell’Iraq non è mai stato così divampante come dopo lo smantellamento della dittatura di Saddam Hussein). Ma queste ribellioni non giustificano assolutamente le dittature.
I paesi occidentali, però, accontentandosi di una tale situazione, in realtà svolgono un ruolo di neocolonialismo.
Il colonialismo in realtà è stato una forma di estensione fittizia dei territori nazionali su altri luoghi, sfruttandoli per quanto riguarda le materie prime, a beneficio delle proprie nazioni. Ma l’effetto più dannoso nel tempo è proprio quello di considerare le popolazioni dei territori colonizzati come inferiori. Questo e’ un contrasto palese nei confronti dei principi cristiani di cui questi paesi si fanno baluardi. L’uguaglianza e la fraternita’ dovrebbero essere prerogative dei paesi che si considerano cristiani. Invece rimaniamo eredi di una mentalita’ nazionale che non fa capire l’importanza dell’interazione con le altre culture del Sud del Mediterraneo come queste persone che cercano approdo in Europa. Come integrarli e come rafforzare i legami con i regimi politici di questi paesi in transizione, sono i veri quesiti dell’Europa che si affaccia sul Mediterraneo. L’Italia ha un ruolo fondamentale in questo processo data la vicinanza geografica.
Queste masse di ex colonizzati sono loro a venire da noi mentre nel passato eravamo noi ad andare da loro. Ma in realtà psicologicamente avviene la stessa cosa: loro non sono come noi. Ciò accade per svariate giustificazioni: c’è già disoccupazione fra noi, sono clandestini e possono diventare delinquenti; inoltre hanno culture e religioni diverse, insomma non c’è nè tempo né voglia di comprendere che loro sono come noi, uomini.
Ora voglio farmi un’altra domanda: è plausibile raggiungere la democrazia e la libertà con la violenza e la rivoluzione? Per molti è sempre stato incomprensibile la tolleranza cristiana del potere mondano, insito nella frase "a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio". Alla luce di questo principio non può la rivoluzione violenta portare forme di libertà come la democrazia. La rivoluzione sovietica lo dimostra, come anche molti colpi di stato militari o di massa ammantati illusoriamente di essere capaci di portare più libertà e benessere. Lo stesso Gheddafi in Libia fece un tipo di rivoluzione più di 40 anni fà al fine di portare tali vantaggi, mentre oggi molti del suo popolo si ribellano contro di lui perché manca la libertà. Credo che ogni miglioramento ha bisogno di pace, meditazione, gradualità e compromessi benefici. Il bene porta il bene, i sacrifici giusti determineranno un consolidamento del frutto migliore della democrazia: la libertà individuale, la promozione dell’essere umano, e non ci sono uomini diversi. Esempi di non violenza che hanno condotto alla libertà e democrazia sono stati ad esempio l’India di Gandhi e il Sud Africa di Mandela.
La frantumazione delle dittature può certamente avvenire se la maturazione indigena viene appoggiata da strutture collaudate anche esterne, ma seriamente votate a determinare l’autosufficienza della popolazione interna.
150 anni fà l’unità d’Italia si formò proprio con tali elementi: reale maturazione della popolazione interna e appoggio internazionale nell’ambito di principi positivi generalizzati.
Ma quando i black block mettono a ferro e fuoco le città, partendo da manifestazioni di opposizione ai governi democratici, non possiamo rinvenire gli elementi utili al miglioramento della vita politica.
Le rivoluzioni dell’inizio del 2011 in vari stati Arabi contro le dittature in Tunisia, in Egitto e altri paesi, rivelano un moderno afflato giovanile, lievemente appoggiato dalle moderne democrazie occidentali, spesso ex coloniali, che comunque temono che i nuovi ordinamenti potrebbero in tali luoghi trovare solo forze organizzate, contingenti al terrorismo islamico, che prenderebbero il potere reale come in Iran.
I paesi del Nord Africa e Mediorientali sono ricchi di materie prime, e non sono i manager superpagati in confronto agli operai nelle aziende dell’occidente, l’esempio migliore per creare società più eque al posto delle dittature nordafricane o mediorentali in genere.
I principi morali e spirituali che soli possono motivare all’equità e al benessere diffuso di questi popoli, di origine islamica, che nel mondo di internet e della globalizzazione, si stanno aprendo alla democrazia e alla libertà di scelta dell’individuo al di là dei confini imposti dalle tradizioni religiose del popolo in cui l’individuo nasce e cresce. Ma questi principi di libertà non sono e non devono essere nuovi strumenti di colonizzazione.
Inconsapevolmente e silenziosamente, probabilmente i giovani stanno superando le barriere sociali religiose del passato, senza proferire parola; la comunicazione mediatica ha unito e sollevato le coscienze ad una unità più grande, insita e prona alla creazione di una vera democrazia. Se pure i fenomeni rivoluzionari nei paesi nordafricani e mediorientali siano diversi, pensiamo alla Libia paragonata alla Siria o Giordania, il problema risolutivo è il medesimo: riuscire a seguire un filo unico di libertà umana che non differenzia gli esseri umani a causa di sovrastrutture sociali, storiche e religiose.
Gerusalemme, 20 Gennaio 2010
Il problema territoriale e l’autodeterminazione ebraica versus quella palestinese
La tesi su cui questo studio si fonda è che il riconoscimento del diritto di esistere dello Stato ebraico nei confini che creano un Lebensraum (spazio vitale) adeguato per gli ebrei sparsi nel mondo è l'unica via per ottenere una vera pace. Né la religione ebraica, né il Sionismo ultra-nazionalista predicano la scacciata delle popolazioni non ebraiche. L’astio tra i due gruppi etnici si basa sulla reciproca ignoranza relativa ai rispettivi costumi culturali, sulla fobia l’uno dell’altro e su atti di violenza che hanno progressivamente creato misure di separazione. Gli arabi devono capire che anche nella visione più estremista e ultra-ortodossa della Eretz Israel Hashlema (la Terra d'Israele intera), i palestinesi possono risiedere come liberi cittadini dello Stato ebraico, anche se non si accetta la loro indipendenza e sovranità sulla Terra d’Israele. Da qui parte il conflitto della destra religiosa d’Israele che si scontra innanzitutto con il principio di autodeterminazione del popolo palestinese, con la comunità internazionale che si appella all’oggettività del diritto internazionale, e in ultimo con i partiti politici israeliani che da due decenni sostengono la nascita di uno Stato palestinese. A tale visione esclusiva si contrappone quella della grande maggioranza degli israeliani che accettano, condividono e sostengono il principio dei due Stati per due popoli. La stessa maggioranza, però, non accetterà mai che il diritto di autodeterminazione ebraica venga violato e messo a repentaglio, non svenderà mai la propria sicurezza nazionale e individuale: in questo le due correnti di pensiero si riuniscono.
Il popolo che ora si chiama palestinese deve trovare il suo nido di convivenza pacifica con lo Stato d’Israele, sia che questo avvenga al suo interno in qualità di cittadini israeliani, sia che si realizzi in maniera totalmente indipendente e sovrana su una parte di ciò che gli ebrei chiamano Eretz Israel (ארץ ישראל). Per far ciò, però, un grande sforzo di comprensione e un grande mutamento nelle intenzioni è richiesto a quella parte della dirigenza palestinese che predica l'esclusività palestinese sui “diritti di proprietà” della “Palestina storica”, ignorando pertanto la storia del popolo d'Israele, da cui paradossalmente, ma verosimilmente, una gran parte di essi sembra provenire prima di essere costretti a convertirsi all’Islam durante la dominazione araba e ottomana; questo dimostrano le più recenti scoperte scientifiche in ambito genetico.
Tel Aviv, 15 Gennaio 2011
La soluzione del conflitto arabo-israeliano
Penso che se il mondo vuole realmente risolvere il conflitto arabo-israeliano, i popoli del pianeta devono comprendere la ragion d'essere dello Stato d’Israele nell'evoluzione della sua forma ebraica e, al contempo, aiutare i palestinesi a capire le proprie origini simili a quelle del popolo d’Israele. Unificare i due popoli è sia l’auspicio, sia l'aspirazione che non bisogna smettere di perseguire. Gli ebrei sanno, in quanto viene loro insegnato sin dalla più tenera età, che essere popolo “eletto” significa dare un esempio spirituale alle nazioni del mondo e non opprimere i palestinesi, né tanto meno a pensare a se stessi con spirito autoreferenziale. In questo libro si intendono spiegare anche quelle tesi israeliane che stanno alla base del concetto di ebraicità del proprio Stato, che sicuramente risulta particolare e diverso dagli altri, ma non per questo meritevole di discriminazione. La spiegazione di queste tesi viene considerata da molti un semplice e superfluo esercizio apologetico verso il Golia israeliano, la potenza militare della regione, ma così non è.
Bisogna guardare in faccia la realtà che spesso risulta essere fotografata parzialmente dai media, senza proporre visioni apocalittiche o inverosimili: è necessario invece conoscere bene le aspirazioni delle parti in causa e i sentimenti reciproci dei gruppi contendenti. I sentimenti che dimorano nel cuore di una popolazione hanno un’evoluzione che spesso non è facile da determinare nelle decisioni collettive: il compito di colui che osserva e studia tali sentimenti collettivi, quindi, è quello di rilevarli da un punto di vista interdisciplinare, che è ciò che questo testo si propone. Il mondo esterno ad un conflitto ingenuamente si stupisce di situazioni che si potevano evitare se si fossero studiate le problematiche e le loro evoluzioni anteriormente; nessuno, però, dieci anni prima avrebbe mai immaginato una tragedia come quella che ha colpito i Balcani negli ultimi due decenni: la strada intrapresa dal conflitto arabo-israeliano sembra essere la stessa, se non più pericolosa tenendo conto degli armamenti e del “capitale umano” posseduti da entrambe le parti in causa, non solo dall'esercito israeliano come, invece, sostengono i detrattori d'Israele e delle sue politiche.
Gerusalemme, 3 Gennaio 2010
Pensieri dal Medio Oriente
La situazione in Medio Oriente è esplosiva, sebbene i mediatori internazionali facciano sperare in deboli segni di pace. La riconciliazione richiede sforzi e sacrifici che sovente sembrano sovrumani a tutte le fazioni in causa, ma la sfiducia tra le parti è così diffusa, la tensione costantemente alta e gli scontri sanguinosi così frequenti che in molti nella comunità internazionale sostengono che solo un proprio intervento di forza (ovvero armato) può portare, se non ad una risoluzione del conflitto, almeno al ridimensionamento del rischio concreto di una deflagrazione della situazione tanto irreversibile da scivolare verso eventi tragici analoghi a quelli che hanno interessato la ex-Yugoslavia negli anni Novanta. Nella prassi prevista dalle Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza dovrebbe intervenire e mediare tra le parti anche a livello delle società civili israeliana e palestinese: si potrebbe addirittura pensare che la comunità internazionale debba “obbligarle” a raggiungere un accordo definitivo per evitare il più possibile future vittime. In questi decenni da entrambi gli schieramenti si è avuto solo un accenno di ciò che potrebbe accadere e per evitare la catastrofe le Nazioni Unite dovrebbero intervenire con il dispiegamento di una forza di interposizione dotata del mandato tipico di una missione di peace-enforcement. Questa è un'eventualità che, però, non viene approvata né in ambito israeliano, né tanto meno in ambito palestinese. Se si vuole una risoluzione “pacifica”, la comunità internazionale, e quindi l’Unione Europea, gli Stati Uniti e quanti altri si cimentano e si cimenteranno in questa impresa, dovranno convincere le parti che l’unica soluzione per evitare una deflagrazione completa è una “pace sorvegliata” dalle Nazioni Unite.
L'opposizione di entrambe le parti a tale soluzione è pressoché totale poiché entrambe affermano la propria esclusiva sovranità sulla stessa terra, ed entrambe ritengono che di dominazioni esterne essa ne abbia già avute troppe e che la presenza delle Nazioni Unite non ne sarebbe che un’altra, anche se in “forma” diversa. Da una parte lo Stato ebraico non accetta truppe straniere sul proprio territorio, dall'altra la posizione classica dei leader palestinesi nazionalisti è che si accettino aiuti esterni purché resti inalterato il diritto alla lotta contro Israele, “occupante” di tutta la Palestina storica. Per tale motivo la comunità internazionale si limita, sia nei suoi organi principali che nelle sue sedi diplomatiche, a percorrere ancora la strada percorsa fino ad ora: cioè la mediazione. La mediazione, però, non impone una soluzione, la richiede e lascia ai contendenti il compito di trovarla. Soluzione che, se gli scontri armati continueranno, risulterà nella distruzione delle aspirazioni di uno degli schieramenti in campo.
Roma, 12 Dicembre 2009
Considerazioni sulla storia del conflitto Israelo-Palestinese (Parte I)
L'affermazione che lo Stato d’Israele abbia il diritto di esistere sembrerebbe indiscutibile. Ogni Stato è uguale all’altro dal punto di vista giuridico e politico, ma ogni Stato ha una sua storia e una sua propria ragion d’essere: lo Stato d’Israele esiste per dare una dimora nazionale agli ebrei dispersi nella diaspora, questa è la sua priorità; come tale esso si è creato e ha fondato le proprie radici socio-giuridiche su quello che è il retaggio ebraico di cui è portatore. Il fatto che i non ebrei possano risiedervi e godere anche della cittadinanza israeliana non significa che esso debba cambiare la propria identità: è l'unica dimora che può fornire sicurezza ad un popolo vessato per più di duemila anni; per capire Israele bisogna capire che il popolo ebraico e la sua Terra Santa sono degli elementi in continua evoluzione.
Sebbene la storia dell'attuale Stato ebraico sia molto recente, la nazione israelitica è una delle nazioni più antiche al mondo; la sua tradizione proviene dai profeti biblici e ha preservato i testi più diffusi della creazione del mondo. La sua forma statale moderna, però, è qualcosa che non tutti danno per assodato e che periodicamente mettono in discussione; il suo diritto viene riconosciuto nei fora accademici, in quelli governativi – a livello nazionale e internazionale – e in quelli della società civile della maggior parte dei Paesi che compongono la comunità internazionale. Gli Stati che ancora non riconoscono giuridicamente e ufficialmente il suo diritto di esistere, lo riconoscono di fatto; l’Iran è probabilmente l’unico Stato che parla più o meno esplicitamente dell'imminente distruzione “dell'entità sionista”, come gli ayatollah (آية الل) chiamano il nemico Stato ebraico. Se però le varie nazioni riconoscono tale diritto di esistere, molti ignorano il rischio reale che l’esistenza dello Stato d’Israele corre: pochi riconoscono la vera minaccia del nucleare iraniano e delle fazioni terroristiche jihadiste, ma soprattutto il pericolo insito nella mentalità omicida del fondamentalismo islamico.
Le opinioni sul problema variano a seconda della propria appartenenza etnica, religiosa o politica, ma addirittura anche linguistico-culturale. Per esempio, molti potrebbero opinare che Israele riceva queste minacce a causa della sua politica espansionistica sull'intera Eretz Israel Hashlema (ארץ ישראל השלמה – paradossalmente tradotta come “Grande Israele” invece di “Terra d'Israele intera”) che mira all’annessione illecita di territori cosiddetti palestinesi, dell’espansione delle cosiddette “colonie” all'interno degli stessi, del processo di “ebraizzazione” di settori palestinesi della città di Gerusalemme o di Hebron, luogo di notevole importanza storica e religiosa – sia per ebrei che per musulmani – a seguito della presenza della Tomba dei Patriarchi.
Per tanti ebrei, invece, questa politica di insediamenti non è altro che la realizzazione del legittimo diritto storico-culturale di vivere nei luoghi in cui la propria religione e la propria cultura hanno visto la loro nascita e il loro radicamento. L’interpretazione maggioritaria del diritto internazionale applicabile alla Cisgiordania giudica questo processo e questa politica israeliana come un trasferimento illecito della propria popolazione verso un territorio occupato militarmente; ne consegue, quindi, che lo Stato d’Israele, nei confronti delle istanze della comunità internazionale, si trovi spesso nella posizione di doversi giustificare con sempre crescente difficoltà, soprattutto alla luce del comportamento estremamente violento di alcuni residenti ebrei e dell'apparente impunità verso i propri soldati mostrata in alcuni casi in cui l’uso della forza può esser andato al di là dei principi accettabili di legittima difesa. La comunità internazionale, soprattutto all'interno delle sue istituzioni collegiali, non approva incondizionatamente i metodi applicati da Israele per soddisfare il proprio bisogno di sicurezza e può indurre i singoli Stati a prendere le distanze dallo Stato ebraico ponendo in dubbio il fatto che la necessità di “sicurezza” altro non sia che un pretesto per affermare una visione politica per sua natura contrapposta anche alle rivendicazioni dei politici palestinesi più moderati.
Le tensioni etniche e religiose nella regione hanno portato ad un progressivo restringimento di una cultura legata alla libertà personale, parte integrante invece delle culture laiche occidentali: libertà di frequentare qualsiasi persona o luogo. In generale gli ebrei stringono rapporti solo con gli ebrei e provano diffidenza verso gli arabi e viceversa: le differenze culturali e quelle legate alla religione frappongono ancora degli ostacoli alle relazioni umane e sociali. Mentre l'influenza di alcune dottrine divide le religioni (ad esempio, rivendicare da parte cristiana la divinità di Gesù Cristo offende il pensiero e lo spirito ebraico e musulmano che rinnegano il principio che Dio possa farsi uomo), ve ne sono altre che hanno delle ripercussioni fortemente politiche e territoriali: ad esempio, la sovranità esclusiva ebraico-israeliana su Gerusalemme sminuisce la relazione del Cristianesimo e dell’Islam nei confronti dei propri luoghi santi e della propria popolazione autoctona, nonché vìola il “diritto internazionale consuetudinario”1 cristallizzato in tante risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite; risoluzioni che proibiscono allo Stato ebraico di annettere formalmente Gerusalemme Est e di renderla capitale poiché territorio che, a seguito di un conflitto armato, vive sotto un regime di occupatio bellica (occupazione militare). D'altra parte quando il Waqf (وقف), l’autorità religiosa dei luoghi santi musulmani, distrugge le vestigia dell’antico Tempio di Erode, ferisce l’animo ebraico il quale anela alla ricostruzione del Tempio (il terzo) esattamente nello stesso luogo in cui sorgeva anticamente e che oggi è il terzo luogo più santo dell’Islam, ovvero la Spianata delle Moschee dove si ergono quella di Al-Aqsa (الأقصى) e quella della Cupola della Roccia. Le tensioni che poi si sviluppano in quel luogo sono fortemente esplosive e accentuate anche dalla grande attenzione mediatica mondiale che riceve.
In una situazione di conflitto come quella arabo-israeliana, uno degli aspetti che emerge (aspetto che, occorre dire, è tipico di una qualsiasi situazione conflittuale – sia essa in Medio Oriente o nei Balcani, non fa differenza) è la non conoscenza dell'altro in essere fra le parti, nonché la scarsa disponibilità verso una conoscenza e un dialogo reciproco. Tale chiusura innesca un ciclo di diffidenza, timore e distanza il cui risultato, purtroppo, è una sorta di reciproca demonizzazione. Il popolo ebraico e il popolo palestinese sono – fatta esclusione per alcune eccezioni sporadiche – assai divisi e vogliono parlarsi sempre meno.
La situazione in Medio Oriente è esplosiva, sebbene i mediatori internazionali facciano sperare in deboli segni di pace. La riconciliazione richiede sforzi e sacrifici che sovente sembrano sovrumani a tutte le fazioni in causa, ma la sfiducia tra le parti è così diffusa, la tensione costantemente alta e gli scontri sanguinosi così frequenti che in molti nella comunità internazionale sostengono che solo un proprio intervento di forza (ovvero armato) può portare, se non ad una risoluzione del conflitto, almeno al ridimensionamento del rischio concreto di una deflagrazione della situazione tanto irreversibile da scivolare verso eventi tragici analoghi a quelli che hanno interessato la ex-Yugoslavia negli anni Novanta. Nella prassi prevista dalle Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza dovrebbe intervenire e mediare tra le parti anche a livello delle società civili israeliana e palestinese: si potrebbe addirittura pensare che la comunità internazionale debba “obbligarle” a raggiungere un accordo definitivo per evitare il più possibile future vittime. In questi decenni da entrambi gli schieramenti si è avuto solo un accenno di ciò che potrebbe accadere e per evitare la catastrofe le Nazioni Unite dovrebbero intervenire con il dispiegamento di una forza di interposizione dotata del mandato tipico di una missione di peace-enforcement. Questa è un'eventualità che, però, non viene approvata né in ambito israeliano, né tanto meno in ambito palestinese. Se si vuole una risoluzione “pacifica”, la comunità internazionale, e quindi l’Unione Europea, gli Stati Uniti e quanti altri si cimentano e si cimenteranno in questa impresa, dovranno convincere le parti che l’unica soluzione per evitare una deflagrazione completa è una “pace sorvegliata” dalle Nazioni Unite.
L'opposizione di entrambe le parti a tale soluzione è pressoché totale poiché entrambe affermano la propria esclusiva sovranità sulla stessa terra, ed entrambe ritengono che di dominazioni esterne essa ne abbia già avute troppe e che la presenza delle Nazioni Unite non ne sarebbe che un’altra, anche se in “forma” diversa. Da una parte lo Stato ebraico non accetta truppe straniere sul proprio territorio, dall'altra la posizione classica dei leader palestinesi nazionalisti è che si accettino aiuti esterni purché resti inalterato il diritto alla lotta contro Israele, “occupante” di tutta la Palestina storica. Per tale motivo la comunità internazionale si limita, sia nei suoi organi principali che nelle sue sedi diplomatiche, a percorrere ancora la strada percorsa fino ad ora: cioè la mediazione. La mediazione, però, non impone una soluzione, la richiede e lascia ai contendenti il compito di trovarla. Soluzione che, se gli scontri armati continueranno, risulterà nella distruzione delle aspirazioni di uno degli schieramenti in campo.
La tesi di questo libro è che se il mondo vuole realmente risolvere questo conflitto, i popoli del pianeta devono comprendere la ragion d'essere dello Stato d’Israele nell'evoluzione della sua forma ebraica e, al contempo, aiutare i palestinesi a capire le proprie origini simili a quelle del popolo d’Israele. Unificare i due popoli è sia l’auspicio, sia l'aspirazione che non bisogna smettere di perseguire. Gli ebrei sanno, in quanto viene loro insegnato sin dalla più tenera età, che essere popolo “eletto” significa dare un esempio spirituale alle nazioni del mondo e non opprimere i palestinesi, né tanto meno a pensare a se stessi con spirito autoreferenziale. In questo libro si intendono spiegare anche quelle tesi israeliane che stanno alla base del concetto di ebraicità del proprio Stato, che sicuramente risulta particolare e diverso dagli altri, ma non per questo meritevole di discriminazione. La spiegazione di queste tesi viene considerata da molti un semplice e superfluo esercizio apologetico verso il Golia israeliano, la potenza militare della regione, ma così non è.
L'obiettivo che questo lavoro si propone è quello di guardare in faccia la realtà che spesso risulta essere fotografata parzialmente dai media, senza proporre visioni apocalittiche o inverosimili: è necessario invece conoscere bene le aspirazioni delle parti in causa e i sentimenti reciproci dei gruppi contendenti. I sentimenti che dimorano nel cuore di una popolazione hanno un’evoluzione che spesso non è facile da determinare nelle decisioni collettive: il compito di colui che osserva e studia tali sentimenti collettivi, quindi, è quello di rilevarli da un punto di vista interdisciplinare, che è ciò che questo testo si propone. Il mondo esterno ad un conflitto ingenuamente si stupisce di situazioni che si potevano evitare se si fossero studiate le problematiche e le loro evoluzioni anteriormente; nessuno, però, dieci anni prima avrebbe mai immaginato una tragedia come quella che ha colpito i Balcani negli ultimi due decenni: la strada intrapresa dal conflitto arabo-israeliano sembra essere la stessa, se non più pericolosa tenendo conto degli armamenti e del “capitale umano” posseduti da entrambe le parti in causa, non solo dall'esercito israeliano come, invece, sostengono i detrattori d'Israele e delle sue politiche.
La tesi su cui questo studio si fonda è che il riconoscimento del diritto di esistere dello Stato ebraico nei confini che creano un Lebensraum (spazio vitale) adeguato per gli ebrei sparsi nel mondo è l'unica via per ottenere una vera pace. Né la religione ebraica, né il Sionismo ultra-nazionalista predicano la scacciata delle popolazioni non ebraiche. L’astio tra i due gruppi etnici si basa sulla reciproca ignoranza relativa ai rispettivi costumi culturali, sulla fobia l’uno dell’altro e su atti di violenza che hanno progressivamente creato misure di separazione. Gli arabi devono capire che anche nella visione più estremista e ultra-ortodossa della Eretz Israel Hashlema (la Terra d'Israele intera), i palestinesi possono risiedere come liberi cittadini dello Stato ebraico, anche se non si accetta la loro indipendenza e sovranità sulla Terra d’Israele. Da qui parte il conflitto della destra religiosa d’Israele che si scontra innanzitutto con il principio di autodeterminazione del popolo palestinese, con la comunità internazionale che si appella all’oggettività del diritto internazionale, e in ultimo con i partiti politici israeliani che da due decenni sostengono la nascita di uno Stato palestinese. A tale visione esclusiva si contrappone quella della grande maggioranza degli israeliani che accettano, condividono e sostengono il principio dei due Stati per due popoli. La stessa maggioranza, però, non accetterà mai che il diritto di autodeterminazione ebraica venga violato e messo a repentaglio, non svenderà mai la propria sicurezza nazionale e individuale: in questo le due correnti di pensiero si riuniscono.
Il popolo che ora si chiama palestinese deve trovare il suo nido di convivenza pacifica con lo Stato d’Israele, sia che questo avvenga al suo interno in qualità di cittadini israeliani, sia che si realizzi in maniera totalmente indipendente e sovrana su una parte di ciò che gli ebrei chiamano Eretz Israel (ארץ ישראל). Per far ciò, però, un grande sforzo di comprensione e un grande mutamento nelle intenzioni è richiesto a quella parte della dirigenza palestinese che predica l'esclusività palestinese sui “diritti di proprietà” della “Palestina storica”, ignorando pertanto la storia del popolo d'Israele, da cui paradossalmente, ma verosimilmente, una gran parte di essi sembra provenire prima di essere costretti a convertirsi all’Islam durante la dominazione araba e ottomana; questo dimostrano le più recenti scoperte scientifiche in ambito genetico2.
La libertà di religione tra onorare i genitori e adorare Dio
Sicuramente il mondo vede e ha sempre visto contrapposte fra loro le religioni. Affiorano spesso lotte dottrinali, su principi, testi e interpretazioni.
Il progetto “Genesi”, impostato dall’imprenditore e editore Renato D’andria, serve, inter alia, a stimolare il dibattito sullo scopo della religione che dovrebbe essere soprattutto personale oltre che sociale. L’uomo dovrebbe essere al centro della religione.
La ricerca della vera religione dovrebbe scaturire da una libera scelta piuttosto che da un indottrinamento quasi o completamente imposto. La libera scelta di religione e strettamente connessa a una libertà fondamentale sancita dai concetti relativi alla libertà di coscienza che dovrebbe essere comune a tutti gli esseri umani, mentre attualmente assistiamo a tendenze presenti in vari paesi rivieraschi del Mar Mediterraneo in cui capi religiosi costringono degli individui a seguire una certa religione con minacce di ogni tipo.
Da questo risorgente problema scaturisce tutto l’impegno di Renato d’Andria che raduna accanto a se intellettuali e politici per far comprendere l’importanza della libertà di coscienza e la libertà della circolazione d’informazione sulle culture diverse per un maggior chiarimento della propria identità di ogni individuo.
La religione è una questione personale piu’ che strettamente sociale e di popolo. A mio avviso la religione si rivolge a un Dio come persona perfetta nelle caratteristiche umane migliori: potere nel libero arbitrio, giustizia e misericordia.
In questa fase dell’articolo, senza dare valorizzazioni ad una o altra religione, intendo porre alcuni esempi confacenti solo per esemplificare il mio assunto. Il personaggio Gesu’, di cui si sono occupate le tre fedi monoteiste, trascorse 40 giorni nel deserto della Giudea digiunando, come la sua università ed esame finale prima di attivarsi nella sua missione, ministero o in quella che era la sua attività principale, anche se i termini sono sicuramente inappropriati.
I Vangeli riportano che in quel periodo Gesù ha percepito gli impulsi dell’annebbiamento superficiale delle cosiddette tentazioni umane, e le ha combattute difendendosi con alcune sacre scritture dei profeti ebrei, secondo i principi appresi sicuramente nella sua yeshiva (la scuola rabbinica che ogni figlio d’Israele osservante frequentava). Gesu’, in quel frangente, sembra aver dimostrato di aver superato la prova fondamentale di quella che io intendo vera religione: e cioè la nostra pratica religiosa trasforma o no il nostro modo di vivere? Ci fa diventare persone più profonde riuscendo a vincere le nubi del male e della superficialità?
Le tentazioni di Gesu’ furono le passioni carnali, l’orgoglio con i suoi affluenti, cioè l’ira, la presunzione, e infine l’ultima tentazione e cioè : Chi adoro veramente?
In quest’ultimo caso gli fu posta la tentazione di adorare il denaro e il potere mondano, ed egli superò la prova dicendo che voleva adorare suo Padre: come se si trattasse di un Uomo perfetto. Per Gesù in quella occasione, come in altre, piacere caratterialmente a suo Padre dei Cieli era la principale attività religiosa.
Ma la religione non è forse tramandata dai genitori? Vi è scelta quindi se una persona nasce in una certa religione?
A questo punto voglio dire qualcosa sulla la differenza tra due termini della tradizione ebraica a cui sia Gesù maestro ebreo che Maometto si sono ispirati per il loro ministero. Il primo è ”onorare” che si riferisce nei comandamenti ai genitori e la parola” adorare” che invece si riferisce al Padre dei nostri spiriti, il Padre eterno, Dio. E cioè l'onore, secondo l'origine ebraica kavod, vuol dire “pesare”, quindi si da un peso maggiore a chi ci ha permesso di nascere e vivere fornendoci un corpo, una casa, una protezione ed ogni cosa utile a questo mondo. Ma dov'è la differenza col Padre invece dei nostri spiriti? “Adorare”, sempre in ebraico hishtachawàh, indica prostrarsi, il che mi fa pensare non soltanto a un termine di paragone con altro, noi per esempio, come pesare, cioé onorare. Piuttosto mi fa pensare di cercare di rispettare il volere divino in noi. Cioè per i genitori possiamo misurare il loro peso reale nella nostra vita, dandogli un valore superiore anche al nostro, almeno materialmente, gratitudine per le cose e gli strumenti offertici per vivere e quindi poter fare il resto di nostra volontà. Invece prostrarci non è solo dare un valore, non ce ne usciamo facilmente a meno che, sempre liberamente, non dimostriamo di introitare il volere divino e convincerci facendolo nostro. In realtà possiamo onorare i genitori, talvolta distinguendoci dal loro volere, perché essendo umani loro, i genitori, potrebbero sbagliarsi su taluni punti e quindi potremmo non decidere di seguire un loro specifico comportamento, caso mai contrario al volere divino, che invece decidiamo di seguire.
L’esperienza del primo ebreo e patriarca delle religioni abrahamitiche mise in pratica questi principi quando lui scelse la sua religione diversa da quella padre. Anche lui subi’ la violenta intolleranza da parte del padre che doveva onorare e della sua autorità politica a cui doveva obbedire. La religione di Abrahamo fu’ tutta personale e seguiva solo Dio che gli diceva Lech Lecha, in ebraico “vai verso te stesso”, che divento’ il titolo di quell’episodio biblico. Come è possibile che vari segmenti dei movimenti religiosi che parlano di Abrahamo non riescono ad applicare il principio della libertà di religione nella sua pienezza? Non ci si puo’ stupire se addirittura chi si diceva il vicario di colui che disse di porgere la propria guancia ai nemici invece inizio’ delle guerre spietate nella storia del cristianesimo.
Per questo è importante distinguere tra la relazione con Dio e quella con gli uomini di qualsiasi religione. L'adorazione ci coinvolge totalmente, spiritualmente, l'onore ci coinvolge anche solo materialmente o in termini di rispetto, in tal caso, anche solo esteriore. In realtà l'adorazione verso Dio ci porta ad onorare i nostri genitori nella giusta maniera, o con il giusto “peso”, perché in fondo è Dio che li ha scelti per noi, per questo è Dio a comandarci di onorarli, così facendo adoriamo Dio e riconosciamo le Sue scelte e il Suo volere nei nostri confronti.
Spesso si pensa alla religione come rito e dottrina, in questa accezione invece, sopra riportata, la vera religiosità sta nel suo effetto nella vita personale.
A mio avviso il rapporto personale con l’Essere Supremo e come quello di un raggio col sole, individuale, illuminato personalmente, e la validità dell’illuminazione sta nella ricezione di accumulazione del singolo raggio.
Se si paragona al sole Dio e ai raggi gli esseri umani, quali figli di un Dio, allora il vero scopo della religione è far sì che autonomamente, ma in decisa dipendenza, il figlio si prepari a diventare Padre, con le Sue estese caratteristiche, se pure esiste una unicità individuale.
La somiglianza piuttosto che l’uguaglianza meglio rappresenta biblicamente il rapporto tra Dio e i Suoi figli.
Quando vediamo i giovani tunisini arrivare sui barconi all’isola di Lampedusa, possiamo considerarli o una massa di diversi o delle persone come noi. Dopo il primo impatto sociologico credo che non possiamo che vederli come uomini singoli, proprio come noi. La divisione storica in popoli, nazioni e stati diversi affievola questo sentimento d’eguaglianza. Per questo come Renato d’Andria afferma, bisogna trovare un linguaggio precedente alle differenze e una cultura che accomuna i popoli del Mediterraneo nelle loro divisioni.
Lo stesso passaggio dovremmo fare nell’attribuire anche a loro il tipo di governo che noi abbiamo. Possono essere i paesi arabi democratici? O loro sono diversi e sono costretti a vivere in una semi-democrazia, oligarchia, monarchia o dittatura? Possono anch’essi godere delle libertà fondamentali sancite dal diritto europeo e internazionale dei diritti umani?
E’ innegabile che le istituzioni democratiche di stampo occidentale, con tutti i loro limiti, sono un bene che collima con la libertà di scelta dell’individuo, almeno comparativamente rispetto ai regimi islamici.
è vero, se pensiamo all’Iran, possiamo temere che la richiesta di democrazia da parte delle popolazioni arabe celi dietro di sè le organizzazioni cosiddette “terroristiche” che fagocitano le aspirazioni politiche delle masse arabe per canalizzarle in espressioni violente contro Israele o l’Occidente. Sappiamo che queste organizzazioni sono più attrezzate di altre danno delle risposte immediate fondate su una base chiara della cultura islamica e possono guidare l’opinione pubblica che è vissuta con libertà di scelta limitate.
La dittatura in vari paesi arabi ha innegabilmente contribuito a un mantenimento relativo di queste masse nei propri confini, ha bloccato la partenza di barconi con masse di immigrati, ha stabilizzato le strutture economiche del paese e, pur non distruggendolo, ha frenato il terrorismo più di quanto la loro assenza poteva fare (ad esempio, il terrorismo all’interno dell’Iraq non è mai stato così divampante come dopo lo smantellamento della dittatura di Saddam Hussein). Ma queste ribellioni non giustificano assolutamente le dittature.
I paesi occidentali, però, accontentandosi di una tale situazione, in realtà svolgono un ruolo di neocolonialismo.
Il colonialismo in realtà è stato una forma di estensione fittizia dei territori nazionali su altri luoghi, sfruttandoli per quanto riguarda le materie prime, a beneficio delle proprie nazioni. Ma l’effetto più dannoso nel tempo è proprio quello di considerare le popolazioni dei territori colonizzati come inferiori. Questo e’ un contrasto palese nei confronti dei principi cristiani di cui questi paesi si fanno baluardi. L’uguaglianza e la fraternita’ dovrebbero essere prerogative dei paesi che si considerano cristiani. Invece rimaniamo eredi di una mentalita’ nazionale che non fa capire l’importanza dell’interazione con le altre culture del Sud del Mediterraneo come queste persone che cercano approdo in Europa. Come integrarli e come rafforzare i legami con i regimi politici di questi paesi in transizione, sono i veri quesiti dell’Europa che si affaccia sul Mediterraneo. L’Italia ha un ruolo fondamentale in questo processo data la vicinanza geografica.
Queste masse di ex colonizzati sono loro a venire da noi mentre nel passato eravamo noi ad andare da loro. Ma in realtà psicologicamente avviene la stessa cosa: loro non sono come noi. Ciò accade per svariate giustificazioni: c’è già disoccupazione fra noi, sono clandestini e possono diventare delinquenti; inoltre hanno culture e religioni diverse, insomma non c’è nè tempo né voglia di comprendere che loro sono come noi, uomini.
Ora voglio farmi un’altra domanda: è plausibile raggiungere la democrazia e la libertà con la violenza e la rivoluzione? Per molti è sempre stato incomprensibile la tolleranza cristiana del potere mondano, insito nella frase "a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio". Alla luce di questo principio non può la rivoluzione violenta portare forme di libertà come la democrazia. La rivoluzione sovietica lo dimostra, come anche molti colpi di stato militari o di massa ammantati illusoriamente di essere capaci di portare più libertà e benessere. Lo stesso Gheddafi in Libia fece un tipo di rivoluzione più di 40 anni fà al fine di portare tali vantaggi, mentre oggi molti del suo popolo si ribellano contro di lui perché manca la libertà. Credo che ogni miglioramento ha bisogno di pace, meditazione, gradualità e compromessi benefici. Il bene porta il bene, i sacrifici giusti determineranno un consolidamento del frutto migliore della democrazia: la libertà individuale, la promozione dell’essere umano, e non ci sono uomini diversi. Esempi di non violenza che hanno condotto alla libertà e democrazia sono stati ad esempio l’India di Gandhi e il Sud Africa di Mandela.
La frantumazione delle dittature può certamente avvenire se la maturazione indigena viene appoggiata da strutture collaudate anche esterne, ma seriamente votate a determinare l’autosufficienza della popolazione interna.
150 anni fà l’unità d’Italia si formò proprio con tali elementi: reale maturazione della popolazione interna e appoggio internazionale nell’ambito di principi positivi generalizzati.
Ma quando i black block mettono a ferro e fuoco le città, partendo da manifestazioni di opposizione ai governi democratici, non possiamo rinvenire gli elementi utili al miglioramento della vita politica.
Le rivoluzioni dell’inizio del 2011 in vari stati Arabi contro le dittature in Tunisia, in Egitto e altri paesi, rivelano un moderno afflato giovanile, lievemente appoggiato dalle moderne democrazie occidentali, spesso ex coloniali, che comunque temono che i nuovi ordinamenti potrebbero in tali luoghi trovare solo forze organizzate, contingenti al terrorismo islamico, che prenderebbero il potere reale come in Iran.
I paesi del Nord Africa e Mediorientali sono ricchi di materie prime, e non sono i manager superpagati in confronto agli operai nelle aziende dell’occidente, l’esempio migliore per creare società più eque al posto delle dittature nordafricane o mediorentali in genere.
I principi morali e spirituali che soli possono motivare all’equità e al benessere diffuso di questi popoli, di origine islamica, che nel mondo di internet e della globalizzazione, si stanno aprendo alla democrazia e alla libertà di scelta dell’individuo al di là dei confini imposti dalle tradizioni religiose del popolo in cui l’individuo nasce e cresce. Ma questi principi di libertà non sono e non devono essere nuovi strumenti di colonizzazione.
Inconsapevolmente e silenziosamente, probabilmente i giovani stanno superando le barriere sociali religiose del passato, senza proferire parola; la comunicazione mediatica ha unito e sollevato le coscienze ad una unità più grande, insita e prona alla creazione di una vera democrazia. Se pure i fenomeni rivoluzionari nei paesi nordafricani e mediorientali siano diversi, pensiamo alla Libia paragonata alla Siria o Giordania, il problema risolutivo è il medesimo: riuscire a seguire un filo unico di libertà umana che non differenzia gli esseri umani a causa di sovrastrutture sociali, storiche e religiose.
(Dr. Jonathan Curci e Renato D'Andria)