martedì 13 settembre 2011

L'AUTORITÀ NAZIONALE PALESTINESE TRA LA MORSA DEI “PALESTINE PAPERS” E LA RICERCA DEL CONSENSO INTERNAZIONALE PER LA CREAZIONE UNILATERALE DI UNO STAT

Prefazione:

di Raffaele Petroni Luglio 2011 tratto da http://www.argoriente.it/arc/paesi/palestina/palestine-ots-palestine-papers-IT.pdf

Articolo:

L'Autorità Nazionale Palestinese (ANP) da diversi mesi affronta una grave crisi interna, sia politica sia sociale, dapprima strisciante ma in seguito sempre più aperta. Questa instabilità pone seri quesiti in merito al suo futuro e mette a repentaglio la sua sopravvivenza e la sua credibilità politica all'interno dei propri confini e all'estero. Soprattutto, però, la espone al rischio di perdere in maniera sostanziale il contatto con le masse popolari e la loro fiducia: si crea quindi uno scollamento difficile da colmare tra la popolazione e la sua classe politica. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
La crisi aperta è iniziata in tutta la sua complessità con la diffusione di cablo diplomatici statunitensi riservati, dalla fine di novembre 2010 e tramite il portale Wikileaks, e si è aggravata ulteriormente con la pubblicazione del dossier Palestine Papers, contenente documenti ufficiali palestinesi, da parte dall'emittente Al Jazeera (in collaborazione con il quotidiano britannico The Guardian), dalla fine di gennaio 2011. La rivelazione di documenti di questo genere ha indotto la popolazione palestinese (residente sia nei Territori che in Israele e all'estero) a concentrare la sua attenzione, ancor più del solito, su ciò che nella politica, nel processo di pace e negli affari internazionali mediorientali avviene “off the record”.
Il dossier Palestine Papers è composto da un insieme di documenti ufficiali, email, meeting reports, appunti, mappe e tanto altro che ANP, Israele e Stati Uniti si sono scambiati nel corso dell'ultimo decennio. I contenuti considerati più compromettenti, e che più hanno spinto i palestinesi a sentirsi “traditi”, riguardano sia le proposte avanzate dall'ANP a Israele per la divisione di Gerusalemme nel quadro di un accordo finale (considerate però dal mondo arabo-palestinese più intransigente una “concessione” impropria, illegittima e sprezzante dei diritti, della cultura e della storia palestinese), sia la proposta per la risoluzione del problema dei rifugiati tramite l'accettazione di un ridimensionamento del “diritto al ritorno”, rompendo quindi con la politica palestinese, cristallizzatasi e rafforzatasi nel corso degli ultimi sessant'anni, di non scendere mai a “compromessi” su questo principio. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
La pubblicazione di questi documenti è molto più difficile da gestire politicamente rispetto alle rivelazioni trapelate precedentemente tramite il portale Wikileaks poiché, mentre per queste ultime si può sostenere che rappresentano il punto di vista “soggettivo” di alcuni diplomatici americani (riflessioni confidenziali inviate via cablo al Dipartimento di Stato a Washington), il materiale relativo ai Palestinian Papers è costituito da atti e proposte delle autorità coinvolte nei negoziati e quindi è da considerare “ufficiale”. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
Le notizie si sono diffuse rapidamente tra la popolazione; Abu Mazen (presidente dell'ANP) e Saeb Erekat (capo negoziatore dell'ANP fino a poco prima che lo scandalo scoppiasse nella sua interezza) sono i principali individui messi “sotto accusa” e chiamati a render conto politicamente del contenuto dei documenti venuti alla luce. Nonostante i loro collaboratori si siano affrettati a smentire inizialmente le rivelazioni definendole ingannevoli, i loro sforzi non sono riusciti a calmare gli animi e alla fine Erekat ha dovuto rassegnare le proprie dimissioni a seguito della scoperta che la fonte tramite cui i documenti sono stati rivelati alla stampa si trovava proprio nel suo ufficio, confermando di fatto le rivelazioni rese pubbliche . In seguito, anche il primo ministro Fayyad ha annunciato le sue dimissioni, ma queste sono state respinte da Abu Mazen, che ha anzi conferito allo stesso Fayyad il compito di formare un governo di unità nazionale, richiesto a gran voce anche dalla piazza. Le rivelazioni di Wikileaks relative alla conoscenza da parte dell'ANP dell'operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza del dicembre 2008 e gennaio 2009 (“Piombo Fuso”) avevano già scosso larga parte della popolazione palestinese residente a Gaza, in Cisgiordania e in Israele, e aveva indotto molti a definire Abu Mazen e Saeb Erekat “complici dei crimini” israeliani (rivelazione smentita categoricamente dai maggiori esponenti palestinesi)5. I documenti resi noti da Al Jazeera hanno portato a una vera e propria rivolta verbale, nonché a una campagna di discredito, guidata da Hamas, a danno dei dirigenti di Fatah6. A seguito delle dimissioni di Erekat e della conseguente necessità di procedere a una riorganizzazione sia dell'ANP che del partito Fatah, Abu Mazen ha indetto nuove elezioni7, esponendo l'assetto politico palestinese a una fase d’incertezza politica e sociale, caratterizzata dall'aumento delle distanze tra la popolazione e la classe politica8. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
In questo quadro, il sostegno e il supporto morale e politico che gran parte della popolazione palestinese residente nei Territori ha mostrato verso le agitazioni popolari che hanno scosso inizialmente la Tunisia, l'Algeria e l'Egitto, e successivamente anche lo Yemen, la Libia, il Bahrein, la Giordania, la Siria e in parte l'Iran, ha complicato la posizione dei vertici dell'ANP, facendoli diventare bersaglio delle richieste provenienti dal basso di un cambiamento socio-politico nei Territori9.
Gli sconvolgimenti che dalla metà di gennaio interessano il Medio Oriente e il Nord-Africa stanno inducendo molti, dentro e fuori queste regioni, a studiare più attentamente il legame tra mass-media, rivendicazioni socio-economiche e governi. Il diritto all'informazione nel mondo arabo è sempre stato interpretato in un'ottica riduttiva, assoggettandolo alle necessità e agli interessi dei regimi in carica. Non stupisce, quindi, che da più parti ci si sia chiesti quale progetto politico abbiano realmente Wikileaks e Al-Jazeera10, e che molti governi regionali li abbiano accusati di voler fomentare sommosse popolari e di voler agire contro la pace sociale nella regione. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
Le critiche ai portali si sarebbero potute attenuare solo nel caso (improbabile) in cui le loro rivelazioni avessero provocato un rafforzamento e una saldatura più forte (difficile da verificarsi nella maggior parte dei casi) tra i regimi e le masse popolari. Alla luce delle ripercussioni per l'ANP, un atteggiamento critico verso i network informativi è stato tenuto anche da alcuni esponenti di spicco all'interno dei Territori palestinesi, in particolare da Saeb Erekat, protagonista degli scandali politici locali11.
Come già mostrato in passato da Arafat in situazioni analoghe, anche l'amministrazione dell'ANP diretta da Abu Mazen non sembra avere come priorità nella propria agenda la risoluzione dei problemi interni tramite il varo di un piano strutturale che affronti le criticità economiche e sociali presenti nei Territori palestinesi, ma quella della sopravvivenza politica, sfruttando la carta dell'ostilità verso le politiche israeliane per aumentare il consenso. Questo modo di agire non ha mai pagato nel lungo termine in passato, e difficilmente lo farà nel presente. Di questo sono ben consci anche gli esponenti di Fatah, ma è la sola carta che in questo momento di “campagna elettorale” informale ritengono di avere a disposizione per scongiurare un risultato negativo analogo a quello del gennaio 2006, in cui Hamas ha ottenuto percentuali schiaccianti di voti anche a Gerusalemme Est. Per l'ANP è iniziata una crisi politica interna e internazionale senza precedenti e le cui ripercussioni dureranno nel tempo.
Alle difficoltà attuali di Fatah si aggiungono, anche se meno plateali, quelle di Hamas, la cui popolarità a Gaza è decisamente in calo dati i problemi economici che la Striscia affronta e la sfida politica lanciata dai gruppi salafiti, che sta portando in alcuni casi il Movimento Islamico a perdere il controllo della sicurezza interna12. Ciò configura quindi una situazione di stallo e d’instabilità per i due maggiori partiti palestinesi, aprendo la strada a eventuali programmi alternativi presentati da nuovi soggetti politici fino ad ora messi un po' in disparte, quali ad esempio quelli di una “Terza Via” prospettata dal partito Iniziativa Nazionale Palestinese guidato da Mustafà Barghouti e Hanan Ashrawi e al quale lo stesso Fayyad è in qualche modo legato. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
L'ANP, e con essa Fatah, ha quindi la necessità, ma soprattutto l'urgenza politica di dare un segnale forte per riguadagnare terreno, credibilità, consensi e legittimità presso la propria popolazione. La via che sta attuando per ottenere questi obiettivi comprende: 1) la “pacificazione” interna con Hamas (mossa fortemente criticata da Israele, che la giudica una prova del rifiuto palestinese a giungere a un accordo di pace13), avviata ufficialmente alla fine di maggio con la mediazione del nuovo regime egiziano, con un accordo di massima per la creazione di un governo di unità nazionale, non ancora concretizzatasi per i contrasti sulla scelta del primo ministro, dato che il Movimento Islamico si oppone alla conferma di Fayyad; 2) l'intransigenza diplomatica nei confronti d'Israele, dimostrata principalmente dal rifiuto categorico di tornare al tavolo delle trattative senza un nuovo congelamento da parte del governo di Gerusalemme della costruzione degli “insediamenti”14; 3) il tentativo di ottenere una condanna ufficiale della politica di Israele tramite una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite15; 4) il tentativo di raccogliere il consenso internazionale necessario per la creazione di uno Stato proprio in sede ONU, mediante una risoluzione dell'Assemblea Generale approvata con il richiamo alla procedura “Uniting for Peace” in occasione della prossima riunione, prevista nel mese di settembre. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
La procedura “Uniting for Peace” è un procedimento particolare che riguarda il potere d'intervento dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nelle situazioni di rottura della pace: si applica in caso d’incapacità o impossibilità del Consiglio di Sicurezza di superare le impasse createsi e autorizza l'Assemblea a decidere il varo di ogni misura necessaria per il ristabilimento della pace e la fine delle ostilità, compreso lo schieramento di contingenti militari operanti sotto mandato delle Nazioni Unite16. La possibilità di applicare questa procedura al conflitto mediorientale per la creazione “forzata” di uno Stato palestinese, però, è messa fortemente in dubbio dal diritto internazionale e pone a serio repentaglio la sopravvivenza giuridica e politica dell'ANP. Infatti, non solo una risoluzione dell'Assemblea Generale non avrebbe il potere “positivo” di alterare lo status giuridico dei Territori Palestinesi, ma avrebbe anzi l'effetto negativo di rendere vano il processo di pace poiché la scelta palestinese di “imporre” una soluzione al di fuori delle trattative diplomatiche violerebbe l'impegno assunto da Arafat (a nome dell'OLP e dell'ANP) di risolvere ogni questione tramite negoziati17, impegno sancito dagli stessi accordi sottoscritti tra le parti, e cederebbe il fianco a un'eventuale denuncia di violazione dei trattati da parte d'Israele presso le corti di arbitrato internazionale18. (www.genesijournal.org di Renato d'Andria)
La via “internazionale” intrapresa dall'ANP è una strada pericolosa, che può far degenerare il già fragile e instabile contesto in una situazione ancor più conflittuale; sia la parte palestinese che quella israeliana nel corso degli ultimi mesi hanno investito tutto il capitale politico internazionale a disposizione nel tentativo di convincere le varie diplomazie ad appoggiare la propria causa in vista della riunione dell'Assemblea Generale di settembre. Le diplomazie internazionali che più hanno tentato di svolgere un ruolo determinante tra le parti, dal canto loro, sono molto indecise sul da farsi. La crisi che il mondo arabo sta affrontando, infatti, ha reso la situazione più complicata da districare perché le platee e le società civili arabe (che percepiscono Israele come un “regime imperialista” alla stessa stregua dei vari dittatori locali) vedranno nel voto di settembre un “segno”, una linea di “demarcazione” tra chi è a favore delle masse locali e chi invece appoggia i “regimi”. Solo buon senso, pragmatismo e la piena presa di coscienza, da parte palestinese, del rischio politico e giuridico che corre, e quindi la scelta di non intraprendere la strada della procedura “Uniting for Peace”, possono consentire di superare l'impasse in cui i negoziati si sono arenati.



Raffaele Petroni

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