martedì 10 maggio 2011

Considerazioni sulla storia del conflitto Israelo-Palestinese (Parte I)



L'affermazione che lo Stato d’Israele abbia il diritto di esistere sembrerebbe indiscutibile. Ogni Stato è uguale all’altro dal punto di vista giuridico e politico, ma ogni Stato ha una sua storia e una sua propria ragion d’essere: lo Stato d’Israele esiste per dare una dimora nazionale agli ebrei dispersi nella diaspora, questa è la sua priorità; come tale esso si è creato e ha fondato le proprie radici socio-giuridiche su quello che è il retaggio ebraico di cui è portatore. Il fatto che i non ebrei possano risiedervi e godere anche della cittadinanza israeliana non significa che esso debba cambiare la propria identità: è l'unica dimora che può fornire sicurezza ad un popolo vessato per più di duemila anni; per capire Israele bisogna capire che il popolo ebraico e la sua Terra Santa sono degli elementi in continua evoluzione.


Sebbene la storia dell'attuale Stato ebraico sia molto recente, la nazione israelitica è una delle nazioni più antiche al mondo; la sua tradizione proviene dai profeti biblici e ha preservato i testi più diffusi della creazione del mondo. La sua forma statale moderna, però, è qualcosa che non tutti danno per assodato e che periodicamente mettono in discussione; il suo diritto viene riconosciuto nei fora accademici, in quelli governativi – a livello nazionale e internazionale – e in quelli della società civile della maggior parte dei Paesi che compongono la comunità internazionale. Gli Stati che ancora non riconoscono giuridicamente e ufficialmente il suo diritto di esistere, lo riconoscono di fatto; l’Iran è probabilmente l’unico Stato che parla più o meno esplicitamente dell'imminente distruzione “dell'entità sionista”, come gli ayatollah (آية الل) chiamano il nemico Stato ebraico. Se però le varie nazioni riconoscono tale diritto di esistere, molti ignorano il rischio reale che l’esistenza dello Stato d’Israele corre: pochi riconoscono la vera minaccia del nucleare iraniano e delle fazioni terroristiche jihadiste, ma soprattutto il pericolo insito nella mentalità omicida del fondamentalismo islamico.


Le opinioni sul problema variano a seconda della propria appartenenza etnica, religiosa o politica, ma addirittura anche linguistico-culturale. Per esempio, molti potrebbero opinare che Israele riceva queste minacce a causa della sua politica espansionistica sull'intera Eretz Israel Hashlema (ארץ ישראל השלמה – paradossalmente tradotta come “Grande Israele” invece di “Terra d'Israele intera”) che mira all’annessione illecita di territori cosiddetti palestinesi, dell’espansione delle cosiddette “colonie” all'interno degli stessi, del processo di “ebraizzazione” di settori palestinesi della città di Gerusalemme o di Hebron, luogo di notevole importanza storica e religiosa – sia per ebrei che per musulmani – a seguito della presenza della Tomba dei Patriarchi.


Per tanti ebrei, invece, questa politica di insediamenti non è altro che la realizzazione del legittimo diritto storico-culturale di vivere nei luoghi in cui la propria religione e la propria cultura hanno visto la loro nascita e il loro radicamento. L’interpretazione maggioritaria del diritto internazionale applicabile alla Cisgiordania giudica questo processo e questa politica israeliana come un trasferimento illecito della propria popolazione verso un territorio occupato militarmente; ne consegue, quindi, che lo Stato d’Israele, nei confronti delle istanze della comunità internazionale, si trovi spesso nella posizione di doversi giustificare con sempre crescente difficoltà, soprattutto alla luce del comportamento estremamente violento di alcuni residenti ebrei e dell'apparente impunità verso i propri soldati mostrata in alcuni casi in cui l’uso della forza può esser andato al di là dei principi accettabili di legittima difesa. La comunità internazionale, soprattutto all'interno delle sue istituzioni collegiali, non approva incondizionatamente i metodi applicati da Israele per soddisfare il proprio bisogno di sicurezza e può indurre i singoli Stati a prendere le distanze dallo Stato ebraico ponendo in dubbio il fatto che la necessità di “sicurezza” altro non sia che un pretesto per affermare una visione politica per sua natura contrapposta anche alle rivendicazioni dei politici palestinesi più moderati.


Le tensioni etniche e religiose nella regione hanno portato ad un progressivo restringimento di una cultura legata alla libertà personale, parte integrante invece delle culture laiche occidentali: libertà di frequentare qualsiasi persona o luogo. In generale gli ebrei stringono rapporti solo con gli ebrei e provano diffidenza verso gli arabi e viceversa: le differenze culturali e quelle legate alla religione frappongono ancora degli ostacoli alle relazioni umane e sociali. Mentre l'influenza di alcune dottrine divide le religioni (ad esempio, rivendicare da parte cristiana la divinità di Gesù Cristo offende il pensiero e lo spirito ebraico e musulmano che rinnegano il principio che Dio possa farsi uomo), ve ne sono altre che hanno delle ripercussioni fortemente politiche e territoriali: ad esempio, la sovranità esclusiva ebraico-israeliana su Gerusalemme sminuisce la relazione del Cristianesimo e dell’Islam nei confronti dei propri luoghi santi e della propria popolazione autoctona, nonché vìola il “diritto internazionale consuetudinario”1 cristallizzato in tante risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite; risoluzioni che proibiscono allo Stato ebraico di annettere formalmente Gerusalemme Est e di renderla capitale poiché territorio che, a seguito di un conflitto armato, vive sotto un regime di occupatio bellica (occupazione militare). D'altra parte quando il Waqf (وقف), l’autorità religiosa dei luoghi santi musulmani, distrugge le vestigia dell’antico Tempio di Erode, ferisce l’animo ebraico il quale anela alla ricostruzione del Tempio (il terzo) esattamente nello stesso luogo in cui sorgeva anticamente e che oggi è il terzo luogo più santo dell’Islam, ovvero la Spianata delle Moschee dove si ergono quella di Al-Aqsa (الأقصى) e quella della Cupola della Roccia. Le tensioni che poi si sviluppano in quel luogo sono fortemente esplosive e accentuate anche dalla grande attenzione mediatica mondiale che riceve.
In una situazione di conflitto come quella arabo-israeliana, uno degli aspetti che emerge (aspetto che, occorre dire, è tipico di una qualsiasi situazione conflittuale – sia essa in Medio Oriente o nei Balcani, non fa differenza) è la non conoscenza dell'altro in essere fra le parti, nonché la scarsa disponibilità verso una conoscenza e un dialogo reciproco. Tale chiusura innesca un ciclo di diffidenza, timore e distanza il cui risultato, purtroppo, è una sorta di reciproca demonizzazione. Il popolo ebraico e il popolo palestinese sono – fatta esclusione per alcune eccezioni sporadiche – assai divisi e vogliono parlarsi sempre meno.


La situazione in Medio Oriente è esplosiva, sebbene i mediatori internazionali facciano sperare in deboli segni di pace. La riconciliazione richiede sforzi e sacrifici che sovente sembrano sovrumani a tutte le fazioni in causa, ma la sfiducia tra le parti è così diffusa, la tensione costantemente alta e gli scontri sanguinosi così frequenti che in molti nella comunità internazionale sostengono che solo un proprio intervento di forza (ovvero armato) può portare, se non ad una risoluzione del conflitto, almeno al ridimensionamento del rischio concreto di una deflagrazione della situazione tanto irreversibile da scivolare verso eventi tragici analoghi a quelli che hanno interessato la ex-Yugoslavia negli anni Novanta. Nella prassi prevista dalle Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza dovrebbe intervenire e mediare tra le parti anche a livello delle società civili israeliana e palestinese: si potrebbe addirittura pensare che la comunità internazionale debba “obbligarle” a raggiungere un accordo definitivo per evitare il più possibile future vittime. In questi decenni da entrambi gli schieramenti si è avuto solo un accenno di ciò che potrebbe accadere e per evitare la catastrofe le Nazioni Unite dovrebbero intervenire con il dispiegamento di una forza di interposizione dotata del mandato tipico di una missione di peace-enforcement. Questa è un'eventualità che, però, non viene approvata né in ambito israeliano, né tanto meno in ambito palestinese. Se si vuole una risoluzione “pacifica”, la comunità internazionale, e quindi l’Unione Europea, gli Stati Uniti e quanti altri si cimentano e si cimenteranno in questa impresa, dovranno convincere le parti che l’unica soluzione per evitare una deflagrazione completa è una “pace sorvegliata” dalle Nazioni Unite.
L'opposizione di entrambe le parti a tale soluzione è pressoché totale poiché entrambe affermano la propria esclusiva sovranità sulla stessa terra, ed entrambe ritengono che di dominazioni esterne essa ne abbia già avute troppe e che la presenza delle Nazioni Unite non ne sarebbe che un’altra, anche se in “forma” diversa. Da una parte lo Stato ebraico non accetta truppe straniere sul proprio territorio, dall'altra la posizione classica dei leader palestinesi nazionalisti è che si accettino aiuti esterni purché resti inalterato il diritto alla lotta contro Israele, “occupante” di tutta la Palestina storica. Per tale motivo la comunità internazionale si limita, sia nei suoi organi principali che nelle sue sedi diplomatiche, a percorrere ancora la strada percorsa fino ad ora: cioè la mediazione. La mediazione, però, non impone una soluzione, la richiede e lascia ai contendenti il compito di trovarla. Soluzione che, se gli scontri armati continueranno, risulterà nella distruzione delle aspirazioni di uno degli schieramenti in campo.
La tesi di questo libro è che se il mondo vuole realmente risolvere questo conflitto, i popoli del pianeta devono comprendere la ragion d'essere dello Stato d’Israele nell'evoluzione della sua forma ebraica e, al contempo, aiutare i palestinesi a capire le proprie origini simili a quelle del popolo d’Israele. Unificare i due popoli è sia l’auspicio, sia l'aspirazione che non bisogna smettere di perseguire. Gli ebrei sanno, in quanto viene loro insegnato sin dalla più tenera età, che essere popolo “eletto” significa dare un esempio spirituale alle nazioni del mondo e non opprimere i palestinesi, né tanto meno a pensare a se stessi con spirito autoreferenziale. In questo libro si intendono spiegare anche quelle tesi israeliane che stanno alla base del concetto di ebraicità del proprio Stato, che sicuramente risulta particolare e diverso dagli altri, ma non per questo meritevole di discriminazione. La spiegazione di queste tesi viene considerata da molti un semplice e superfluo esercizio apologetico verso il Golia israeliano, la potenza militare della regione, ma così non è.


L'obiettivo che questo lavoro si propone è quello di guardare in faccia la realtà che spesso risulta essere fotografata parzialmente dai media, senza proporre visioni apocalittiche o inverosimili: è necessario invece conoscere bene le aspirazioni delle parti in causa e i sentimenti reciproci dei gruppi contendenti. I sentimenti che dimorano nel cuore di una popolazione hanno un’evoluzione che spesso non è facile da determinare nelle decisioni collettive: il compito di colui che osserva e studia tali sentimenti collettivi, quindi, è quello di rilevarli da un punto di vista interdisciplinare, che è ciò che questo testo si propone. Il mondo esterno ad un conflitto ingenuamente si stupisce di situazioni che si potevano evitare se si fossero studiate le problematiche e le loro evoluzioni anteriormente; nessuno, però, dieci anni prima avrebbe mai immaginato una tragedia come quella che ha colpito i Balcani negli ultimi due decenni: la strada intrapresa dal conflitto arabo-israeliano sembra essere la stessa, se non più pericolosa tenendo conto degli armamenti e del “capitale umano” posseduti da entrambe le parti in causa, non solo dall'esercito israeliano come, invece, sostengono i detrattori d'Israele e delle sue politiche.
La tesi su cui questo studio si fonda è che il riconoscimento del diritto di esistere dello Stato ebraico nei confini che creano un Lebensraum (spazio vitale) adeguato per gli ebrei sparsi nel mondo è l'unica via per ottenere una vera pace. Né la religione ebraica, né il Sionismo ultra-nazionalista predicano la scacciata delle popolazioni non ebraiche. L’astio tra i due gruppi etnici si basa sulla reciproca ignoranza relativa ai rispettivi costumi culturali, sulla fobia l’uno dell’altro e su atti di violenza che hanno progressivamente creato misure di separazione. Gli arabi devono capire che anche nella visione più estremista e ultra-ortodossa della Eretz Israel Hashlema (la Terra d'Israele intera), i palestinesi possono risiedere come liberi cittadini dello Stato ebraico, anche se non si accetta la loro indipendenza e sovranità sulla Terra d’Israele. Da qui parte il conflitto della destra religiosa d’Israele che si scontra innanzitutto con il principio di autodeterminazione del popolo palestinese, con la comunità internazionale che si appella all’oggettività del diritto internazionale, e in ultimo con i partiti politici israeliani che da due decenni sostengono la nascita di uno Stato palestinese. A tale visione esclusiva si contrappone quella della grande maggioranza degli israeliani che accettano, condividono e sostengono il principio dei due Stati per due popoli. La stessa maggioranza, però, non accetterà mai che il diritto di autodeterminazione ebraica venga violato e messo a repentaglio, non svenderà mai la propria sicurezza nazionale e individuale: in questo le due correnti di pensiero si riuniscono.
Il popolo che ora si chiama palestinese deve trovare il suo nido di convivenza pacifica con lo Stato d’Israele, sia che questo avvenga al suo interno in qualità di cittadini israeliani, sia che si realizzi in maniera totalmente indipendente e sovrana su una parte di ciò che gli ebrei chiamano Eretz Israel (ארץ ישראל). Per far ciò, però, un grande sforzo di comprensione e un grande mutamento nelle intenzioni è richiesto a quella parte della dirigenza palestinese che predica l'esclusività palestinese sui “diritti di proprietà” della “Palestina storica”, ignorando pertanto la storia del popolo d'Israele, da cui paradossalmente, ma verosimilmente, una gran parte di essi sembra provenire prima di essere costretti a convertirsi all’Islam durante la dominazione araba e ottomana; questo dimostrano le più recenti scoperte scientifiche in ambito genetico2.

Nessun commento:

Posta un commento