martedì 10 maggio 2011

La difficoltà nel comunicare tra Islam e Ebraismo sulla questione israelo-palestinese

I mali della società palestinese vengono spesso ricondotti alla prolungata e continua occupazione israeliana: in alcuni casi, però, quando l'estremismo fondamentalista parla di occupazione di aree palestinesi, non si riferisce solo a Gaza e alla Cisgiordania, ma all'intera Palestina storica, cioè anche a quei territori ufficialmente e internazionalmente riconosciuti come Stato d'Israele; questo estremismo aspira alla totale indipendenza statale e considera lo Stato ebraico un “usurpatore” della sovranità appartenuta fino a quel momento alla grande ummah (أمّة) islamica.
Questa parte di ummah è difatti la terra – conquistata poi con la forza dalle milizie musulmane – tanto cara al profeta Maometto perché, come insegna il Corano, dal centro spirituale di Al-Quds (La Santa, ovvero Gerusalemme) egli ascese in cielo in sogno. La concezione che l'Islam ha del rapporto esistente tra ummah islamica e terra su cui essa è stanziata ha tra i vari elementi il rifiuto dell'indipendenza nazionale e statale ebraica: la dottrina islamica fagocita la tradizione del popolo d'Israele, avviluppa sporadicamente e frammentariamente varie storie della Bibbia ebraica in vari versetti del Corano dando così l'impressione di basarsi su fonti ebraiche, ma contemporaneamente nega la possibilità di leggere, studiare e ricercare non solo i precetti della Torah (תורה) scritta e orale su cui la religione ebraica si poggia, ma anche tutta la ricca spiritualità dei profeti ebrei della Bibbia citati anche nel Corano. In tal modo al fedele musulmano viene proibito di conoscere nel loro contesto autentico e originario le parole di quei profeti che erano parte attiva della nazione israelita, che contribuivano alla sua formazione, che predicavano la sua indipendenza e il suo destino come popolo non assimilato tra i goym (גוים – i “gentili”, ovvero i non ebrei).

(Dr. Jonathan Curci e Renato D'Andria)

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