martedì 10 maggio 2011

Uno sguardo all’attuale situazione della sicurezza in Medio Oriente

In questo momento il grande timore degli analisti occidentali della situazione della sicurezza nel Mediterraneo è che lo stesso popolo egiziano che ha cacciato il dittatore Mubarak possa sostenere o tollerare le tendenze pericolosissime del movimento dei “,;fratelli musulmani” basate sull’odio verso gli ebrei e l’America, sul sostegno al terrorismo islamico e contro i regimi arabi che non sposano la causa della jihad armata contro gli infedeli.


Nel frattempo, l’Iran non ha aspettato troppo tempo per tentare di inviare due navi militare lungo l’importantissimo canale di Suez (da cui passano il 40% delle navi del mondo) forse per salutare la rivoluzione egiziana e portare le masse verso il proprie alleanze regionali Iran-Siria-Turchia-Libano. Nel contempo, Nasrallah si permette, con tutta la libertà, di inveire contro Israele e l’Occidente a pochi kilometri dal confine con lo Stato ebraico. Nella sua retorica che convince le masse arabe, il leader dei Hizballah afferma senza scrupoli che l’esistenza di Israele è il vero problema del Medio Oriente: Israele che “ammazza e fa carneficine, confisca le terre (arabe), caccia i suoi abitanti, con il sostegno dell’Occidente”.


Ciò che è ancora più sorprendente è che l’amministrazione di Obama, che in teoria rappresenta l’Occidente, abbraccia l’inclusione dei fratelli musulmani in un governo egiziano post-Mubarak. L’accusa contro Obama degli analisti preoccupati della situazione è che nella stessa maniera con cui ha sostenuto il popolo contro Mubarak, il presidente statunitense non si è pronunciato contro il pericolo dell’Islam radicale”, in realtà del “,;terrorismo islamico” che aizza le proprie popolazioni contro gli infedeli. Obama infatti cerca di negoziare con l’Iran (ispirato dall’ideologia dell’eliminazione d’Israele e dall’instaurazione di una dominazione islamica shiita sul mondo), insiste sul ritiro dall’Iraq e dall’Afganistan (che da campo libero ai talebani integralisti), tollera il regime di Hugo Chavez (che cova l’anti-americanismo e si coalizza con questi nemici degli USA e di Israele). Ci si domanda se la diplomazia di Obama segue e accetta gli eventi invece di svolgere il ruolo naturale di leader mondiale.


La visione messianica di Obama non si concentra su questi problemi gravissimi. Invece la sua soluzione al problema dell’”Islam radicale” risiede nella creazione dello stato palestinese. Nella sua visione, la soluzione del “,;conflitto dei conflitti” porterà a risolvere tutta la questione dell’animosità islamica contro l’Occidente americanizzato. Ma in realtà questa non è la soluzione all’instabilità di vari paesi del Medio Oriente, del malcontento delle masse e della spartizione dei poteri. Non importa che la fondazione dello stato della Palestina all’ovest del Giordano si realizzi su terre la cui sovranità è ancora fortemente disputata con gli israeliani e lo Stato ebraico. Inoltre, la creazione di uno Stato della Palestina senza garanzie che i suoi dirigenti non seguiranno l’ideologia islamica è l’inizio di un nuovo conflitto ancora più grande di quello che si cerca di risolvere. Se non ci si assicura di come il popolo palestinese della Cisgiordania sarà guidato, esso, lo Stato della Palestina diventerà la pista di lancio di attacchi sempre più sofisticati prima contro gli ebrei che vivono nei territori palestinesi e, appena ricevute le armi necessarie dalle popolazioni degli stati vicini, si scaglieranno al di là del muro contro Gerusalemme e Tel Aviv.


Le convulsioni di massa che si stanno verificando in molti paesi arabo musulmani contro i regimi autoritari potrebbe sprigionare le forze jihadiste che vedono come primo nemico Israele. Lo Stato palestinese non da nessuna garanzia che non si allinei con questa spinta jihadista anti-israeliana, dopotutto la retorica di base dice che gli infedeli ebrei, coadiuvati dall’occidente, hanno strappato la terra ad essi stessi. Non ci si può aspettare uno Stato palestinese amico d’Israele. Intanto, i leaders Europei continuano ad allinearsi con Obama e a costringere Israele a concedere più terre disputate con gli arabi palestinesi, per stabilire un altro Stato che alla fine seguirà il vero sogno arabo-musulmano jihadista: gettare i sionisti a mare e eliminare il “,;regime sionista” in tutta la Palestina.


Il minuscolo Stato d’Israele si sentirà sempre meno sicuro, e al contempo i pericoli reali di animosità nei suoi confronti aumenteranno man mano che circoli di potere sempre più ostili a Israele si alternano, dopo gli scontri tra la popolazione e il governo centrale.


Visto che è risaputo che Israele è dotata di un ampio arsenale atomico, i paesi della regione devono essere accorti sulle conseguenze di uno scontro armato contro il considerato nemico comune. Addirittura la Corte internazionale di giustizia, nel suo parere consuntivo del 1996, ha ammesso l’uso della bomba atomico come “,;droit de survie extreme”, (diritto di sopravvivenza estrema) cioè nel caso in cui la sopravvivenza dello Stato sia messa in pericolo.


Onde evitare reazioni possenti da parte di Israele che possono sfociare addirittura nell’uso terribile della bomba nucleare, in caso di pericolo estremo di esistenza dello Stato stesso, da parte di uno stato un po’ diverso dagli altri vicini, come Israele, che è formato da una popolazione che ha avuto l’esperienza unica del genocidio, bisogna conoscere i pericoli di questo subbuglio nei regimi mediorientali. Invece di preoccuparsi dei problemi di crescita economica, si parla di potere e di aggressività, come se la competitività si faccia con la forza invece che con l’intelligenza. La conseguenza è uno stato continuo di animosità che non permette la sofisticata organizzazione del giro della moneta che determina la crescita economica e il benessere. Il capro espiatorio di quest’animosità è Israele: nemico comune perché diverso all’interno dell’Umma Islamica. Le regole del gioco, fondate sulla forza, portano sempre a scagliarsi contro Israele sotto l’eufemismo della Palestina libera, senza capire la storia di quella terra e a trovare soluzioni che non portino alla dominazione e all’umiliazione di un popolo nei confronti di un altro.


Israele osserva tutto dal suo cantuccio, preparando la propria società su tutti i fronti anche quello militare per sopravvivere, mentre Obama chiude gli occhi sui veri pericoli del mondo e da spazio alle forze che ha deciso di ignorare e di tollerare: la crescita dell’ideologia della jihad dappertutto, il terrorismo islamico e le avventure nucleari di certi regimi.


L’obiettivo anti-israeliano si sta raggiungendo: Israele è sempre più isolata mentre cerca di gridare il pericolo imminente nella regione. L’opulento occidente è troppo concentrato sulle questioni delle vita privata dei propri leaders o far quadrare i conti dei bilanci statali per cui è sempre meno amico del fastidioso nemico degli arabi, da cui essi dipendono energeticamente. Israele, il capro espiatorio dell’incapacità dei paesi arabi ad organizzarsi in un modo utile alla creazione di prosperità, pace e sicurezza, potrebbe reagire anch’essa in una maniera impulsiva per far crollare il muro di menzogne che si sta erigendo da Islamabad al Cairo, passando da Ramallah.


L’impegno d’Israele ora sarà quello di ricalibrare le relazioni con i paesi arabi, visto che ciò che è che accaduto in Tunisia ed Egitto potrebbe accadere in altri paesi arabi della regione. Gli analisti confermano che i Fratelli Musulmani rimangono il gruppo più organizzato dell’opposizione in Egitto. E’ risaputo che esso serve come antenna alle operazioni di Hamas.


Quando le nuove forze islamiche dovranno trovare un nemico comune, esse si scaglieranno contro Israele. Il pericolo più grande per la sicurezza internazionale è che la transizione da uno stato dittatoriale alla democrazia in questi paesi significherebbe dirigere i furori delle masse contro Israele, elemento estraneo alla regione islamica, che farà coalizzare le varie fazioni islamiche dello scenario della democrazia dei paesi arabi. Questo a sua volta significherà sostegno alla rincorsa del nucleare da parte dell’Iran.


Un Egitto ostile significherebbe la cessazione della fornitura di gas naturale verso Israele, la quale è diventata fortemente dipendente. Segni in questo senso già si intravedono. Tali timori sono già stati espressi dal Primo Ministro Binyamin Netanyahu, il quale nella conferenza stampa con il Cancelliere tedesco Angela Merkel questa settimana ha espresso le sue profonde preoccupazioni che la rivoluzione egiziana potrebbe prendere la forma di quella iraniana del 1979.


Il secondo scenario, che offre maggiore speranza certamente, sarebbe quello di vedere la nascita di un Egitto democratico e laico che sarebbe in grado di mantenere i trattati di pace e buone relazioni con gli Stati Uniti. Tale speranza passa attraverso il potere militare che garantirebbe la stabilità nella fase di transizione dal regime di Mubarak ad un vero Egitto democratico, privo di una significativa influenza da parte degli Islamisti. Ma questa è una velleità, poiché l’Islam è l’unico punto di riferimento della coscienza arabo-musulmana e gli imam potranno sempre più colmare il vuoto politico. L’unico elemento deterrente nei confronti di questa previsione è che ogni nuovo governo, che metterebbe a repentaglio la sicurezza d’Israele, sentirebbe l’impatto della fine dell’aiuto di 1,5 billioni di dollari che gli Stati Uniti inviano ogni anno al fine del mantenere tali trattati.


La cooperazione militare, mantenendo le forze fuori del Sinai, concedendo permessi di transito Settimanali, evitando la violazione dei trattati di pace, attraverso l’aiuto degli Stati Uniti e la collaborazione con l’intelligence israeliana, offre una vera speranza che un Egitto democratico potrebbe più assomigliare alla Turchia che all’Iran.


D’altro canto è chiaro che Israele manterrebbe abbondantemente gli accordi di pace, indipendentemente dalla coalizione che assume la dirigenza del paese. Detto tutto ciò, anche se le relazioni Israele - Egitto ed Egitto - Stati Uniti sono mantenute, comunque i riverberi delle proteste e il ruolo dell’Egitto quale centro della cultura araba, determinano un’onda di riforma in tutta la regione mediorientale. Altri leaders arabi stanno lavorando per trovarsi pronti a questi venti di sommosse popolari : il re di Giordania Abdullah ha dimissionato il suo gabinetto, e il Presidente dello Yemen Ali Abdullah Saleh ha dichiarato di non volersi ricandidare alle prossime elezioni, né passerà il potere a suo figlio, quando terminerà il suo mandato nel 2013.


Infine c’è un altro scenario: Israele ha bisogno di essere preparata ad affrontare una regione in costante cambiamento. Le sue iniziative di pace devono necessariamente realizzarsi in un consesso multilaterale e non ci si può accontentare di in un mero bilateralismo cangiante. Non si può sperare in una pace duratura con l’Egitto quando la sua popolazione è influenzata dalla mentalità ostile della leadership di Siria, Palestina e Libano. Non c’è mai il momento ideale per raggiungere la pace, c’è sempre presente un grande rischio nella regione, se si pensa che allo stesso tempo della pace israeliana con l’Egitto, i fronti bellicosi sono aperti con gli Islamici radicali: l’Iran e la Siria ad Est, Hamas al Sud, Hizballah al Nord.


L’iniziativa di pace della Lega araba apparentemente offre una via per mitigare il rischio e ricevere il massimo raggiungibile: il fatto di normalizzare le relazioni con 22 nazioni implica il fatto che, se un paese arabo viola questo accordo, sarebbe in violazione nei confronti di tutti gli altri stati arabi. Il rischio opposto invece è che se le negoziazioni tra Israele e i 22 stati arabi falliscono, Israele si può trovare nella situazione di rinnovata ostilità nei confronti di tutti questi stati. Questa è la differenza tra le negoziazioni regionali e le negoziazioni bilaterali. Siccome i rischi di fallimento dei colloqui di pace per raggiungere un accordo sono alti, il fatto stesso di negoziare rappresenta un pericolo grosso per chi non potrebbe riuscire a firmare una pace, secondo i criteri imposti dai 22 stati che sono d’accordo su molti punti già dall’inizio delle negoziazioni, quali: rifugiati, la sovranità sulla capitale Gerusalemme, la restituzione di tutti i territori occupati dopo 1967, evacuazione degli ebrei viventi in Giudea e Samaria, in quanto popolazione trasferita in violazione della quarta convenzione di Ginevra.


Naturalmente bisogna vedere se l’iniziativa di pace sopravvive a questa fase di sconvolgimenti politici nei paesi arabi.


Se Israele assicura di non perdere tale opportunità, abbracciando l’iniziativa di pace, mostrando il suo interesse verso l’Egitto e la Giordania, le proposte della Lega araba, e inoltre dimostra la volontà di accogliere i negoziati con i Palestinesi e il mondo arabo in generale, tutto ciò sarebbe un segnale di sostegno alla democrazia egiziana, un’opportunità di lavorare col governo che si è formato al fine di mantenere e far avanzare ogni relazione, tutto ciò avrebbe un vero significato per il miglioramento della questione palestinese.


In conclusione, una pace in Medio Oriente non può che fallire, se è fatta tra regimi dittatoriali fondate sulla concentrazione dei poteri piuttosto che sulla separazione dei poteri, sull’arbitrato del despota piuttosto che su uno stato di diritto fondato sulle libertà fondamentali, riconosciute dalle Nazioni Unit, e che sposano ideologie di mancanza di libertà di coscienza e di protezione delle minoranze etnico-religiose.


(Dr. Jonathan Curci e Renato D'Andria)

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